Mostra d’arte a Senigallia / Ex Pescheria
16 settembre – 1 ottobre 2023

«L’arte sembra correre il rischio di venire sommersa dalle chiacchiere» scriveva Rudolf Arnheim in apertura del suo fondamentale Arte e percezione visiva, nel 1954: «libri, articoli, saggi, discorsi, dibattiti pronti come chirurghi a vivisezionare un corpo fragile e delicato».
«Sembra»; «corre il rischio». La tesi non è dunque da assumersi come un assioma. Non per nulla il gestaltista psicologo dell’arte poco oltre corregge che «con tutta probabilità una diagnosi cosiffatta è troppo superficiale».
Pure l’ha scritta, e anche confermata: Attenzione! «Stiamo trascurando il dono di comprendere le cose valendoci di ciò che i sensi ci dicono di loro».
Quale accesso allora questa mostra può indicare alla percezione sensoria e quali item al visitatore che lo rendano sensibile all’atto di parteciparvi?
Ne rilevo due: un principio di economia è annunciato dal titolo di una sola parola, Delma; una traccia è data dalla collocazione interattiva delle opere nell’ampia navata della ex-pescheria in un contesto monumentale come quello del Foro Annonario.
Delma è una parola che conoscono bene i muratori, i metalmeccanici, i corniciai, i cartai, i sarti e ogni altro genere di artieri che abbiano bisogno di riprodurre una forma (il computer la rende come –aider drafting): la soglia di una finestra per esempio, o il modello di carta per il taglio di una stoffa. Il suo etimo, δε?γμα, pervenuto al dialetto medionordadriatico attraverso i Bizantini dell’Esarcato, ha generato varianti e un buon numero di significati sia affini che eccentrici.
Sono rizomi germinati da una radice che significa “mostra”e riguarda il mostrare. Non tutti ci sono utili. Nel nostro gergo adriatico delma (dima per il navalmeccanico) riguarda particolarmente il rilevare una Gestalt predeterminata: quella del luogo e quella del tempo.
Il luogo configura geometrie di relazioni che stringono il mare e l’umano a un approdo perennemente instabile. Nell’arco dell’esperienza pittorica e plastica Beatrice Bolletta ha dispiegato una poetica dell’instabilità consegnando alle sue opere una durata: che fossero pastelli di gesso colorati mai fermati con un fissativo, o polvere di carbone, o tenui aggregati di sabbia.
“Un dono” definisce Arnheim la capacità di conoscere attraverso i sensi; ma è vero che lo stiamo perdendo? Vero che «i nostri occhi si sono venuti riducendo a meri strumenti mediante i quali misurare e identificare»? che «la capacità innata di comprendere attraverso gli occhi si è assopita e deve essere risvegliata»? E perché, se è così, solo gli occhi e non tutti noi stessi?
Nell’atto di entrare nel luogo della rappresentazione, il visitatore entra egli stesso a far parte dell’opera e vi determina fulcri mobili. Segue fili invisibili e si abbandona a una lettura ingenua che è propria del suo essere-nel-luogo e propria del suo essere-nel-tempo. Fa quello che Roland Barthes dice che vorrebbe nella Camera chiara: mostrarsi lui all’opera sapendo che quella troverà il varco e il modo per arrivare fino a lui.
Anche se la presa di contatto può non bastare. Servirà rilevare un’impronta. Possibilmente riconoscerla. Nessuna ansia però di appropriarsi di un codice Delma, nessun insormontabile desiderio di ricorrere al medium più usato per spiegarlo, che è la parola.
Perché nel rispecchiamento possiamo fidarci. La forma della forma è già dentro di noi.
Leonardo Badioli




Qual è quindi il senso attraverso il quale si può leggere la Mostra?
La risposta è proprio nella lettura, ovvero la possibilità di decifrare il
tutto come un racconto, una narrazione che non si sviluppa in una
trama di eventi consequenziali, ma suggerisce l’idea di una evocazione,
di un rimando continuo ad una affabulazione che va, più che compresa, interiorizzata.
Nelle opere di Beatrice Bolletta il materiale che le compone, la sabbia, non si dà come paradigma
simbolico, ma si declina come mezzo attraverso il quale dipanare
il discorso, con il quale costruire la narrazione.
Opere come “Memoria dell’acqua” dove lo stratificarsi delle
linee in rilievo suggeriscono sia una sorta di letto di fiume ormai disseccato,
che una rilevazione quasi aerea di un territorio solcato da corsi d’acqua che
si offrono nella loro sostanziale materialità. Oppure in “ Plateau” in cui
l’allusione geografia all’ altopiano inteso come tipologia di rilievo
caratterizzato, nella sua parte più alta, da larghi ripiani ondulati, non si esaurisce
in questa definizione, ma evoca visivamente e poeticamente una sorta di
onda di eco, la sola che si possa udire visivamente nel silenzio del deserto.
Nell’opera “Universo” l’allusione siderale non si configura come semplice descrizione,
ma evoca attraverso la materia ed il suo colore , uno spazio dove il vuoto abissale
non esiste, perché tutto è materia, tutto è costituito da una consistenza percepibile
e quindi fondante.
La stessa modalità poetica attiene anche alle opere di sapore sculturale, anche se
in questo caso la materia sabbiosa configura una forma antropica che tradisce
comunque una origine terrea configurandosi come una sorta di autoriflessione.
In “Riflessione” la figura essenzializzata in una corporeità che enfatizza il gesto,
si guarda riflessa in un frammento di specchio creando una sorta di cortocircuito
tra l’immagine e il titolo. Inoltre anche se visivamente la figura si guarda riflessa
in uno specchio, è altrettanto vero che la postura suggerisce un pensare, un riflettere
su se stessa, creando una circolarità tra il gesto dell’osservarsi e quello del pensarsi.
Cosa può vedere l’esile figura se non il suo essere opera, se non il constatare di essere
forma, eppure pensando può cogliersi in una idea di sé che la forma può solo suggerire.
“ L’intelligenza artificiale suicida” parrebbe esplicitare figurativamente un evento drammatico, una scelta
esistenziale; eppure anche in questo caso il senso va oltre l’apparente narrazione evocando
nella forma della ferita, non una lacerazione anatomica, ma una sorta di segno tribale e simbolico che
traduce il gesto in atto significante, aperto come il simbolo ad innumerevoli sensi.
Nell’opera intitolata “Dormiente” la figura raggomitolata su se stessa assume quasi
una forma di paesaggio, una sorta di struttura collinare che ricorda per evocazione
la morbidezza delle dune del deserto. Tuttavia la postura quasi fetale evoca una
parvenza di fragilità che la consistenza plastica della figura sembra negare.
Maurizio Cesarini
“Cerco di creare con la sabbia un “Altrove”, un mondo sconosciuto che mi si rivela quando un’opera è terminata.
Le tele diventano un “Territorio” che non è la terra o la sua rappresentazione ma il luogo del tutto e del nulla.
Le sculture di sabbia sono cyborg equipaggiati alla sopravvivenza in questi “Territori”, presenze inquietanti nella loro solitudine.
Un pensiero, una visione di un cosmo nomade in cui poter inglobare la metamorfosi di corpi, linguaggi ed atmosfere.”
Beatrice Bolletta
Beatrice Bolletta nata nel 1959, diplomata all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Ha esposto in Italia e all’estero.