GIASONE ALLA RICERCA DEL VELLO D’ORO
LA PELLICCIA D’ARIETE VALEVA UN REGNO
(Ariete, 21 Marzo – 20 Aprile)
Invocando te , o Febo,
racconterò le gesta di uomini antichi
che, per volere di Pelia, condussero l’agile Argo
attraverso le bocche del Ponto e le rupi Cianèe
alla conquista del vello d’oro.
Comincia così la storia degli Argonauti, che Apollonio Rodio racconta con squisita eleganza alessandrina. Ma una storia precede sempre una storia. Cos’era successo prima che i cinquantatré guidati da Giasone alzassero le vele verso Oriente? Se il racconto fluisce come un fiume verso il mare, bisognerà salire alle sorgenti per sapere da dove l’acqua viene.
Tanti anni prima Pelia, usurpatore del trono di Iolco, aveva avuto dall’oracolo un responso minaccioso: “Temi l’uomo con un calzare solo”. Sapeva che l’oracolo non minaccia mai a vuoto, così che i piedi di chiunque gli venisse davanti divennero per lui un’ossessione. Per anni nessuno s’era mai presentato calzato a metà. Poi un giorno successe davvero.
Il re si trovava sulla spiaggia in compagnia di un gruppo di principi amici e stava sacrificando animali al dio del mare quando vide tra la folla un personaggio singolare: giovane, bruno, capelli lunghi, tunica di pelle, una lancia per ciascuna mano. Pelia fu colto da un inconsapevole tremito, da uno strano presentimento. Scorse giù con lo sguardo ma il ragazzo era mezzo coperto dalla calca. Come gli astanti presero poi a diradarsi, vide però distintamente quello che temeva di vedere: ai piedi lo sconosciuto aveva un solo calzare. Concluse nervosamente la cerimonia e intanto cercava con gli occhi la temuta presenza. Quando fu libero di avvicinarsi, lo raggiunse e gli si parò davanti.
«Chi sei? Da dove vieni? Chi è tuo padre? Cos’è questo strano vestito?» chiese concitatamente. Poi azzardò: «E come mai porti un calzare solo?»
Il forestiero si chiamava Giasone, figlio di Esone. Veniva da lontano. Perché un calzare solo? L’altro gli era rimasto conficcato nella melma mentre stava attraversando un fiume. Pelia stralunò nell’udire quei nomi: il ragazzo era figlio del legittimo re di Iolco e certo era venuto per ucciderlo e riprendersi il trono. Come aveva potuto sfuggire alla caccia sanguinosa che aveva bandito per cancellare ogni traccia della discendenza del deposto sovrano? Non solo Giasone era lì; con lui tanti segni si davano appuntamento in quell’istante preciso, in quel luogo, e tutti erano infausti per l’usurpatore.
La paura lo colse mentre vedeva ogni indizio convergere sull’evento che l’oracolo aveva annunciato.
Si allontanò cautamente e dispose che un buon numero di spie seguisse il forestiero a vista, senza farsi notare. Intanto si andava preparando a prendere qualche iniziativa. Non poteva permettersi gesti avventati o passi falsi: aveva l’oracolo contro e non era semplice eluderlo. Ci arrivò dopo cinque giorni di tormentosa incertezza.
Fece dunque chiamare quel giovane e gli girò un quesito:
«Se tu fossi re e uno dei tuoi sudditi ti minacciasse di morte, come ti comporteresti?»
Il ragazzo sorrise divertito a quella domanda e rispose di getto: «Lo manderei a cercare il vello d’oro».
Giasone amava l’allegria e non poteva immaginare che quella trovata gli sarebbe ricaduta addosso. Il vello d’oro era un oggetto remoto anche alla mente, la Colchide un luogo mitico della cui esistenza non si era nemmeno sicuri. Pelia invece prese la risposta per buona, proprio quella che cercava per assecondare la volontà dell’oracolo senza rimetterci il trono e la pelle. Già, il vello d’oro, nella lontana terra dei Colchi. Allontanare quel ragazzo fatale imponendogli un’impresa impossibile non era anche allontanare l’appuntamento dell’oracolo senza dargli contro, visto che era proprio l’uomo dall’unico calzare ad avergliela indicata? Soluzione ideale: chissà se poi riuscirebbe a ritornare vivo. Magari il corso degli eventi si sarebbe srotolato in un’altra maniera. Decise così di buttare i dadi in tavola.
«Sta bene,» disse bruscamente. «Avrai il trono di Iolco che sottrassi a tuo padre; ma non prima che tu mi abbia portato il vello d’oro».
Il ragazzo non fece neanche in tempo ad abbozzare qualche timido “ma io” che i soldati del re gli fecero intendere che l’invito andava senz’altro accettato.
Giasone si trasse in disparte. Il comando era assurdo. Del vello d’oro aveva appena sentito parlare. Cercava nella memoria. Lontano, oltre l’Egeo, le rupi Cianee galleggiano e sbattono insieme schiacciando le navi che si trovano a passare nel mezzo; più avanti si appostano le Arpie sanguinarie, con volto di donna e piume d’uccello; poi la terra dei Massineci, che fanno tutto al rovescio. Qualcuno parla dell’isola di Ares, sacra al dio della guerra, dove gli uccelli scagliano penne mortali come frecce accuminate. Ma nessuno è tornato a raccontarlo. All’estremo lido del Ponto, presso la foce del fiume Fasi, dicono sia la terra dei Colchi; là un bosco sacro racchiude il vello d’oro, inchiodato su un albero di quercia, e un drago insonne e divoratore lo protegge.
Giasone intristiva al pensiero di dover affrontare quel viaggio per mari incerti, per terre sconosciute, alla ricerca di cose che non riusciva a collocare neanche nella fantasia. Meglio avrebbe rinunciato a riprendere il regno se doveva buttarsi in queste imprese disagevoli, e visitare luoghi impervi e tristi; ma lo sforzo di Pelia di schivare il proprio destino adesso costringeva lui ad affrontare il suo. Così ognuno si fa strumento della necessità nel momento stesso in cui la vorrebbe piegare al suo volere. Quale pregio aveva mai quella pelliccia d’ariete, quale valore per meritare una simile impresa, oltre alla sua lucentezza? Quel vello era un oggetto troppo stravagante perché avesse un prezzo, ed ecco che all’improvviso valeva un regno. Ma un regno non valeva per Giasone l’affanno della disciplina e il rischio di uccidere e morire. Era uomo mite e scanzonato, riluttante alle armi, portato a sanare che non a produrre ferite, come anche indicava il suo nome, che significa “il Risanatore”; soprattutto però era curioso d’ogni cosa. Com’era finito il vello d’oro in quel paese lontano? Una lunga vicenda l’aveva certamente portato in quel luogo e gli antichi racconti ne davano vaga memoria.
Ma una storia precede sempre una storia. Tanti anni prima Issione, figlio dei re dei Lapiti, aveva commesso un crimine atroce. S’era promesso sposo a Dia delle Nubi Dense di Pioggia e aveva prospettato doni e ricchezze alla ragazza e a suo padre Ioneo. L’inverno stava ormai per finire e i giorni s’erano allungati fino a bilanciarsi con la durata dell’oscurità. Tutti aspettavano l’arrivo di quell’umida regina perché prendesse possesso dei campi nei giorni di marzo, quando le piogge dovevano irrorare i germogli e lustrare le gemme della nuova stagione.
Era dunque tempo che Issione mantenesse la parola e invitasse la sposa in casa sua. La fece venire infatti, accompagnata da suo padre; ma già meditava di violare l’intesa e di mandarla all’aria. Aveva occultato una fossa presso l’ingresso del palazzo; quando gli invitati arrivarono, guidò personalmente il promesso suocero Ioneo fino a farlo precipitare nel fondo, dove un letto di carboni ardenti lo inghiottì e lo fece morire.
Il delitto però era troppo grande perché il reo ne fosse purificato e ne potesse ottenere il perdono. Zeus stesso avrebbe dovuto obbligare quell’uomo insolente a pentirsi amaramente dell’oltraggio portato alla sposa e alla lealtà degli accordi. Invece, inaspettatamente, decise di accoglierlo alla sua mensa per dargli la possibilità di un riscatto.
Lui si sedette da padrone alla tavola imbandita dell’Olimpo e cominciò a guardare con occhio di pesce la bella Era, giunonica e regale, che gli sedeva accanto. S’era montato la testa, chiaramente. «Con tutte le infedeltà che le tocca subire dal suo instancabile marito», pensò, «questa qua non vede l’ora che gli capiti un tipo come me. Per rifarsi, se non altro.»
Sbagliava i suoi conti, però. Zeus infatti sorvegliava ogni mossa dello spudorato e per un po’ lo lasciò fare, per vedere fino a dove voleva arrivare. Era stessa si mostrava infastidita dalla ruvida corte di quel villanzone. Così, in combutta tra loro, i coniugi divini imbastirono l’inganno. Plasmarono Nefele, la Nuvola, a immagine identica della regina del cielo e stettero in disparte a guardare cosa succedeva. Lui si accostò alla falsa Era con passo molleggiato e galante, le cinse il fianco con le braccia pelose protendendo le labbra verso il candido collo della nuvola. Nefele non aveva volontà e fu travolta da quel ruvido abbraccio; seguì docilmente l’amoroso drudo lontano dalla vista degli dei dell’Olimpo.
Issione si fece rivedere quando ormai era estate; le giornate s’erano fatte lunghe e le notti passavano in fretta; da lì in avanti il sole avrebbe cominciato a rotolare verso i giorni brevi dell’inverno attraversando le costellazioni estive. Tragica congiunzione. Il seduttore contava probabilmente sull’accoglienza amichevole di un marito ignaro e in un accenno complice della sposa. Sbattè invece in un ghigno di feroce ironia, vide che anche Era lo squadrava con freddezza severa. Non fece nemmeno in tempo a salutare che fu afferrato e denudato. Ermes aveva ricevuto l’ordine e aveva disposto che fosse frustato senza pietà, fino a rigargli la schiena di sangue.
“Ripeti”, infieriva mentre la frusta continuava a calare: “I benefattori vanno onorati”. Poi Issione fu legato a una ruota infuocata e fu fatto rotolare per il cielo. Fu visto calare a balzi ampi non diversamente da quando ogni anno in estate si vedevano i contadini incendiare una balla di fieno e farla rotolare giù per la collina.
Nefele rimase sola a vagare per gli inflessibili azzurri sopra l’Olimpo. Povera nuvola. Si aggirava sconsolata senza sapere dove andare. La sua forma era splendida, ma la mente evanescente come i bioccoli e le frange delle quali era fatta. Smarriva l’aspetto cangiante in figure mutevoli, poi ritornava ad avvolgersi in forma compatta come il filo attorno a un fuso invisibile. Della regina del cielo aveva la maestà luminosa, la volatile grazia, lo stesso irritabile umore quando un pensiero cupo o un evento contrario la scuotono. Quella somiglianza estrema, quell’alterità speculare era però puro gioco di luce, soltanto lacrimosa inconsistenza. La dea allora, che di quell’immagine era il corpo e la volontà, nel vederla intristire ogni giorno di più, e perdersi nel cielo vuoto, e quasi strinarsi sotto il sole cocente, decise di trovarle uno sposo. Atamante, signore del tuono, le sembrò l’uomo giusto. Lui non se la sentì di rifiutare e il matrimonio si fece. I due per un po’ furono sposi felici, e dalle loro unioni nacquero due bambini belli, Frisso ed Elle. La sposa però apparve ben presto freddina e superba al valoroso marito; quell’accondiscendenza docile parve a lui sempre più rarefatta degnazione, scostante indifferenza. Atamante cominciò a desiderare una sposa terrena, con qualche difetto magari, ma viva, concreta, amorosa.
Ne fu certo quando si trovò di fronte Ino che Rinvigorisce. La donna irruppe nella casa del signore del tuono e la rovesciò come un calzetto. Spazzò via la rivale, invase ogni angolo della casa, occupò ogni spazio, si insediò come regina capace e volitiva. E all’ottimo Atamante partorì prontamente due altri figli, che chiamò Learco e Melicerte. Roba sua, non della nuvola. Adesso Frisso ed Elle le davano fastidio, dovevano morire. Il pensiero di Ino era come eliminarli, e per farlo imbastì una gabola speciale ad effetto ritardato.
Per prima cosa convinse le donne del regno a bruscare le sementi prima di seminarle. Non nacque niente, naturalmente. Di fronte allo spettro della carestia, Atamante mandò ambasciatori all’oracolo di Delfi per avere consiglio. Ino attese appostata lungo la strada che quelli tornassero e, giunti, li convinse all’inganno. Aveva furbizia e mezzi suadenti per poterlo ottenere.
Al re fu portato un responso diverso da quello uscito dal recinto di Delfi: Frisso ed Elle dovevano essere sacrificati al dio per salvare dalla fame la gente del regno.
Atamante obbedì a capo chino. Allestì una pira e predispose ogni cosa con disperata rassegnazione. Già il coltello stava per affondare nelle carni bianche dei due ragazzi quando la loro madre Nefele con inattesa prontezza discese dal cielo e avvolse ogni cosa fino a nasconderla completamente. Come poi si fu rarefatta comparve, a fianco dell’ara sacrificale, un ariete dal vello dorato. I fratelli salirono in groppa e presero il volo.
Sotto di loro correvano la spiaggia, il mare crespo, le isole ventose. Già l’Asia Minore si offriva alla vista, lontano. L’ariete volante imboccò lo stretto passaggio che separa i due continenti: lì, per guardare le coste e i paesi che correvano sotto di loro, Elle perse l’appoggio e scivolò con un grido. Divenne piccola piccola e scomparve tra le onde bianche. Quel mare da allora fu chiamato Ellesponto, il mare di Elle.
La corsa proseguiva nel vento mentre Frisso, aggrappato alle corna dell’ariete volante, piangeva la perdita della sorella. Le lacrime scivolavano lungo le guance e volavano via. Giunse infine all’altro capo del mare, nel paese dei Colchi, dove regna il potente Eeto. Fu ben accolto ed ebbe da lui una sposa. L’ariete d’oro fu offerto ad Ares come ringraziamento per la salvezza raggiunta e il suo vello fu posto in un bosco a lui sacro, inchiodato su un tronco di quercia.
Tanti anni dopo qualcuno si ricordò di quel vello e mise in mare una nave per andare a riprenderlo. Giasone era il suo nome e Argo il nome della nave. Cinquantatré compagni partirono per l’impresa, la più bella gioventù dell’Ellade.
Racconterò la storia di uomini antichi
che condussero l’agile Argo
alla conquista del vello d’oro…
Così comincia Apollonio il racconto. Andate avanti, se volete, accompagnando nel viaggio gli Argonauti, senza temere fatica e tempo avverso. Sul mare non avrete che gli astri a guidarvi. Vedrete ora l’Ariete brillare nel cielo di settembre; ma il sole del mattino non sorgerà nello stesso posto in cui lo videro loro. E’ scorso nel tempo all’indietro verso il luogo dove si trovano i Pesci e sta spostando lentamente verso l’Acquario il passaggio apparente all’equinozio di primavera. Il cielo promette la pioggia. Forse è Dia delle nubi a portarla, o Nefele la nuvola. Forse è la stessa Ino terrena, dopo che l’inganno le venne scoperto. Per questo e per altro Era la perseguitò fino a farla impazzire. La sventurata si gettò in mare da una rupe; le Nereidi pietose la raccolsero nel grembo marino e la tennero come sorella. Le cambiarono nome: Ino divenne Leucotea, la dea bianca, la dea del cielo coperto di nebbia.
Il buon Atamante ricominciò da capo, ebbe una moglie nuova che si chiamava Temisto. Speriamo che gli sia andata meglio che con le precedenti.
Giasone il risanatore vide tutto il mondo ed ebbe infine il regno di suo padre. Lo condusse con saggezza e umanità per lunghi anni.
Leonardo Badioli
nota filologica:
L’ETA’ DELL’ARIETE
(Ariete)
Il titolo del racconto allude al fenomeno della precessione degli equinozi, scoperto al mondo greco-romano da Ipparco di Nicea, sul quale si fondano cicli astrologici che durano circa duemila anni.
L’incipit trascrive quello del testo di Apollonio Rodio, Argonautiche I 1-4. Poi però il racconto ritorna alle origini della leggenda di Frisso ed Elle, a Issione, a Nefele, al buon Atamante, a Leucotea, la Dea Bianca, fino a pervenire a Giasone e all’impresa del recupero del vello d’oro. Questa parte del racconto è narrata in versi da Ovidio, Fasti, III, 849-876: “Divennne astro l’ariete, toccando la spiaggia”.
Manilio II 244-255, suddivide i segni zodiacali in correnti (Ariete, Leone, Sagittario), in piedi (Gemelli, Vergine, Acquario), seduti (Toro, bilancia, Capricorno), sdraiati (Cancro, Scorpione, Pesci), anche se la rappresentazione dell’ariete non lo dà affatto corrente, ma accovacciato con la testa rivolta all’indietro. Circa la posizione dei segni si veda il citato commento a Manilio, pagg. 219 e 317.
Secondo la lezione più diffusa, l’Ariete astrale è quello che portò Frisso ed Elle verso il Ponto Eusino, con varianti da un mitografo all’altro. Per Igino II 20, e per Scolio ad Arato 225, è Nefele che porta in cielo il vello dell’ariete. Sempre Igino ricava da Eratostene che l’ariete si tolse il vello da solo e lo regalò ad Eeta, e che il vello volò da solo nel cielo; per Manilio II 212, 532; III 304, 445; IV 124, l’ariete è in cielo tutto intero.
Ci sono anche altre identificazioni dell’Ariete. Luciano, De Astrologia 12, dice che si tratta dell’agnello di Atreo e Tieste: il possesso dell’ariete dal vello d’oro come prova per diventare re di Micene li trascinò in una guerra fratricida. Luciano aggiunge (si veda Graves 111.2) che la loro fu una gara di astronomia; infatti il vello d’oro indica che il sole in quel tempo sorgeva nel segno dell’Ariete all’equinozio di primavera. Luciano in De Astrologia 7 e in De Sacrificiis 14, e Macrobio in Saturnalia I 21 18 dicono che l’ariete sia Zeus Ammone Crioprosopon, dal Sembiante di Ariete. Citando Ermippo, Igino associa l’Ariete anche a un’impresa di Dioniso: il suo esercito rimane senz’acqua nel deserto egiziano; un ariete lo provoca all’inseguimento fino all’oasi di Zeus Ammone; lì l’animale scompare alla vista ma tutto l’esercito può dissetarsi. Oppure: Dioniso regna in Egitto e riceve in dono un gregge da un certo Ammone. Per riconoscenza il dio colloca un ariete tra le stelle.