Famiglie distrutte, bambini suicidi
Del calvario in patria delle nostre badanti non sappiamo nulla
Si svegliano una mattina e le loro mamme non ci sono più. Partite. La maggior parte verso l’Italia. A fare le badanti, a prendersi cura dei nostri vecchi. Mentre i loro vecchi e i loro figli restano da soli, in Romania, Moldavia, Ucraina, Polonia o Russia.
I figli a distanza crescono con le nonne o le zie (se ci sono ancora), i vicini di casa ( se se ne possono prendere cura), i padri sono perlopiù assenti da sempre o allontanati perché violenti; se in patria non hanno più nessuno vengono portati negli istituti per minori. “Orfani bianchi”, li chiamano. E spesso la separazione dalla madre è troppo dolorosa, l’attesa troppo lunga da sopportare. Nei casi meno drammatici, questi bambini finiscono per essere depressi, sviluppano dipendenza dalle droghe o dall’alcol, o prendono la strada dell’illegalità. Nei casi più drammatici si tolgono la vita, anche a dieci, undici, dodici anni. «Un gesto estremo», spiega Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione donne romene in Italia, «credendo che sia l’unico modo per far tornare le mamme a casa». Quanti siano i suicidi tra gli orfani bianchi non si sa con precisione. Non esiste alcuna statistica, né il governo romeno si occupa del fenomeno. «Io ho contato almeno 40 suicidi di bambini negli ultimi anni», racconta Silvia, «poi mi sono fermata, non ce la facevo ad andare avanti».
E la vita, in Italia, delle donne straniere che curano i nostri anziani, per il momento, resta confinata nelle case di chi le ospita. Le vedi nei parchi delle nostre città di domenica pomeriggio, quando hanno qualche ora di riposo. O in attesa nelle stazioni dei pullman cariche di scatole e valigie. Le poche che riescono a tornare per pochi giorni nei loro Paesi hanno le borse piene di giochi, qualcuna carica sul pullman anche qualche bicicletta. Ma di loro, dei loro figli e delle loro famiglie, soprattutto da quando Paesi come la Romania sono entrati in Europa, non si occupa nessuno. Né lo Stato di partenza, per il quale sono il miglior contribuente: «I soldi che queste donne spediscono ogni mese alle loro famiglie vengono usati senza che però loro facciano spendere niente allo Stato, e non pesano neanche sul tasso di disoccuapazione». Né lo Stato di arrivo, come l’Italia appunto, che pure alle badanti riserva sempre delle quote maggioritarie nei decreti flusso, e che alle badanti ha ormai demandato il lavoro di cura dei suoi anziani.
Passò la notte a guardare il soffitto basso della casetta. Da dietro la tenda si sentiva il russare del prete e di sua madre. Mirta teneva una mano di suo figlio che le dormiva accanto.
Che faccio, pensava, che faccio?
Fuori era ricominciato a piovere. L’acqua tamburellava il tetto sottile e i vetri della finestra, nel camino erano rimaste solo le braci. Mirta si tirò la coperta fin sotto il mento. Inutile girarci intorno. Nina aveva ragione, altre soluzioni non ce n’erano. L’internat. Solo la parola le faceva venire un brivido nella spina dorsale e le chiudeva la gola. Che razza di madre sei se sei costretta a mettere tuo figlio in un orfanotrofio? Che razza di madre sei? Non lo sapeva. Era una madre sola, e il mondo era un masso, un enorme masso che rotolava per una discesa e lei poteva solo scappare e cercare un posto dove nascondersi. Perché quello acquistava velocità, giorno per giorno, e non fosse riuscita a evitarlo, a farlo rotolare via, l’avrebbe schiacciata sotto il suo peso.
L’alba la sorprese con gli occhi ancora aperti. Si alzò lentamente per preparare la colazione. Non voleva sveglia Illie. In quei giorni la scuola poteva anche aspettare.Riempì il pentolino dal rubinetto che sputava un filo d’acqua. Poi lo mise a bollire per il tè. La tenda di padre Boris si spalancò e apparve il sacerdote, già vestito con la tonaca. <Buongiorno Mirta>. La guardò. <Non ha dormito>.
<No padre.>
parlavano sottovoce. Il prete si avvicinò. <A cosa pensavi?> < A Illie. Io non ho soluzioni. Meglio, una ci sarebbe, ma è terribile>
Padre Boris si passò la mano sulla barba. <Parli dell’internat,vero?> <Sì>
<Anche io ci ho pensato. Forse è l’unica soluzione>
Mirta si voltò per guardare l’uomo negli occhi. <E come faccio a dirglielo?>
Lui le prese le mani. <Ascolta. Devi vederla così. E’ solo per un periodo. Solo per un po’ di tempo, non è per sempre. Perché tu farai in modo che Illie un giorno possa venire a stare con te a Roma. Anzi – le si avvicinò ancora di più -, saperlo laggiù ti darà ancora più forza e più perseveranza. Non potrai scoraggiarti, non potrai mollare, perché Illie aspetterà solo te. Dipenderà da te dargli una vita migliore.>
<Padre mio, io già lo faccio.>
<Lo farai con ancora più forza e determinazione. E’ una sfida che Dio ti ha mandato. E tu accetta quello che la vita ti mette davanti. Non tirarti indietro. Ci vuole forza, Mirta. Tanta forza per quelli come me e te (…)> Gli occhi del prete erano umidi, le mani invece secche come rami di quercia. <Confida in Dio, lui ha per ognuno di noi un disegno preciso. Il tuo è pieno di difficoltà. Ma forse perché da te si aspetta molto.>
<Nessun Dio separerebbe la madre dal figlio.>
tratto dal libro “Orfani bianchi” di Antonio Manzini, Ed. chiarelettere, 2016
La vita delle badanti
Badanti, balie. Dedite alla cura degli anziani, dei bimbi. Ma anche degli adulti… talora. E, talora, usate e sfruttate. Un fenomeno a cui ci siamo abituati ormai da tempo. Badanti e balie. Giunte da diversi paesi. Ma, soprattutto, dall’Europa centroorientale. Nelle famiglie degli italiani hanno rimpiazzato le madri, impegnate nel lavoro. E le figlie, che oggi sono poche, indaffarate, e non si possono occupare dei genitori poco o per nulla autosufficienti. Badanti e balie. Anzi, le badanti più delle balie, perchè siamo sempre più vecchi e facciamo sempre meno figli. La loro diffusione, davvero rapida e ampia, in Italia, riflette la tendenza – tradizionale per il nostro paese – a “caricare” sulla famiglia, invece che sui servizi, i compiti dell’assistenza. Le badanti come alternativa al “ricovero”, all’assistenza domiciliare.
Di seguito il racconto di una di loro, Tamara Basovych, nostra amica
Voglio raccontare la vita delle badanti, perché non tutti sanno quanto è complicata. Io sono una di loro e so quanta pazienza e quanti sacrifici ci vogliono per fare questo mestiere. Vivo in una piccola città di mare edificata ai piedi di una collina. Le strade sono come scale e tutte portano in cima; la casa nella quale io vivo si trova a metà percorso e dalla finestra del soggiorno si gusta una incantevole vista, di tetti, di terrazzi, di balconi fioriti; laggiù vedo lo stupendo paesaggio del mare. Lavoro da una signora di 85 anni, malata di demenza senile: lei dimentica molte cose, ma ne ricorda fissamente molte altre. Nei primi giorni del mio lavoro, lei era calma e serena, ma presto ho capito che questa, magra, piccola donna, era come un vulcano pronta ad esplodere. Quando qualcosa non le piaceva, gridava, urlava, mi picchiava; in quei momenti era così cattiva che non trovo paragoni. Ecco…era come l’acqua bollente. Nella prima settimana di vita in quella casa, ho visto in sogno un serpente: era il temibile Cobra dagli occhiali che tentava di pungermi, e io lo volevo allontanare. Lei sorvegliava e seguiva ogni mio movimento durante i miei lavori domestici; con i suoi grandi occhiali lei vedeva tutto. <A destra è caduto un pezzetto di carta, a sinistra è caduta una briciola!> mi urlava, mi dava ordini. Ribattevo come potevo. Anche la preparazione del pranzo non la si poteva fare con calma, ci voleva una pazienza di ferro. Non si rivolgeva mai a me con gentilezza e l’intercalare “per favore” non esisteva nel suo vocabolario. Si rivolgeva a me sempre da irritata e se ne chiedevo le motivazioni, mi rispondeva che non avevo il diritto di consumare la sua acqua e la sua elettricità. Gridava furibonda, dimenando le braccia minacciosa. E poi chiudeva l’uscio del bagno. Quando riferivo queste “cagnare”ai suoi figli, loro le facevano una severa predica; allora per qualche giorno Maria mitigava il suo atteggiamento violento, ma dopo una settimana ritornava come prima.
La generazione degli anziani che noi badanti accudiamo, ha vissuto la gioventù nel periodo durante la guerra, che fu una stagione ricca di fatiche, di sacrifici continui, a volte esasperati da una miseria nera e generalizzata in quasi tutta la società civile. L’istruzione era elementare; gli svaghi striminziti e rari come le mosche bianche. C’era da ricostruire tutto: case, fabbriche, strade e le discrete pagine venivano corrisposte da ritmi di lavoro che non erano nemmeno paragonabili alle blande prestazioni degli odierni lavoratori. Adesso ogni famiglia possiede 2 o 3 automobili e i figli studiano anche nelle Università. Ma i nonni, perlopiù, restano poco istruiti, non leggono libri, danno solo un’occhiata ai giornali e alle riviste quando vanno al bar o dal medico di famiglia. Si accontentano di un po’ di Tv. Quando per loro arriva la vecchiaia e le malattie, non sanno come passare il tempo. Adesso i figli non possono o non vogliono pensare ai genitori, perché sono impegnati nel lavoro e anche perché questa è un’altra generazione, diversa da quella dei loro padri, che avevano sofferto la guerra. Questi giovani vogliono dare i genitori in mano a delle badanti, come me, e alle case di riposo. Però le badanti sono straniere e questo procura dispiaceri e sdegno ai vecchi, e si sfogano così con noi; questi anziani dai loro figli vorrebbero affetto, premura e comprensione e invece devono convivere con gente che arriva da altri Paesi, con altre usanze, abitudini, consuetudini e che parlano altre lingue, uscite dai loro per la miseria e la fame. Qui in Italia si possono incontrare polacchi, romeni, africani, latino-americani, russi, ucraini, cinesi, eccetera. Anche noi straniere dobbiamo conoscere bene le usanze italiane, perché ogni Paese ha le sue. Per le donne italiane non c’è cosa più importante della pulizia della casa e la preparazione dei cibi. Quando incontrano una conoscente, l’argomento più interessante è quello del mangiare e della salute. Qui in Italia dove vissero famosi compositori, pittori, scrittori e registi del Cinema, se domando chi è Paganini, posso sentirmi dire che lui vive vicino e ha un commercio di vini. Io spiego che lui era un famoso musicista. E non smetto di meravigliarmi di tali risposte. Alcuni italiani fanno molte economie di tutto: luce, gas, acqua; ci sono casi nei quali le economie s’avvicinano all’assurdo, come alcuni che di notte chiudono l’acqua del water; e non parliamo del riscaldamento: ci sono case dove d’inverno la temperatura è di 6°7°, dove si accendono i termosifoni solo raramente; tutti stanno in casa con addosso tanti vestiti e sono lividi in faccia. Eppure ogni membro della famiglia possiede una macchina nuova. Ho l’impressione che in Italia la Seconda Guerra Mondiale non sia ancora finita. E mai finirà. Alcune nostre donne fanno le pulizie negli appartamenti e dobbiamo stare molto attente in questo tipo di lavoro: ad esempio se sposti un soprammobile, le padrone urlano e in alcuni casi ti rendono impossibile il lavoro. Su di una panchina siede una mia collega. Piange. Si asciuga le lacrime. Nelle ore libere mi piace passeggiare sulla lunga via che corre, a metà della collina, parallela alla spiaggia. Quanti giardini si vedono, tutti arricchiti di bellissimi fiori e di piante sempreverdi; e laggiù c’è il mare. In primavera, nei giorni di sole, l’acqua è calma, la sua superficie è liscia come l’olio e riflette tanti colori: l’azzurro, il verde smeraldo, il celeste violaceo e il bianco lucente, pieno di forza, di vita. Ma quando c’è burrasca e il vento è impetuoso il quadro non è più idilliaco, portatore di pace e di serenità; le onde schiumose si fanno grigie e biancastre, le nuvole scaricano valanghe di pioggia e spingono a riva i gabbiani impauriti. Il mare s’è agitato. Forse il suo sfogo non è rabbia, ma solo lo sforzo di far fare il bagno alle nuvole che gli corrono sopra a pochi metri, essendo grigiastre, sporche, indecenti. Lei dice: <a vedere questi indimenticabili paesaggi della natura, mi sento avvilita, scoraggiata e avverto con maggior sofferenza il mio dramma, la mia vita troppo infelice che sono costretta a subire qui in Italia, impedendomi di godere le sue naturali bellezze. In modo assoluto noi dipendiamo dai nostri datori di lavoro, dobbiamo sottostare al loro carattere, alle loro abitudini e al livello della loro cultura. Noi lavoriamo tutti i giorni e, per legge, abbiamo 2 giorni alla settimana nei quali possiamo uscire di casa, per 7-8 ore, mentre negli altri giorni il permesso è di 2-3 ore. Ciò è gradito, ma per uscire occorre il permesso dei padroni di casa. Ci sono famiglie con persone buone, affettuose che rispettano e osservano le disposizioni della legge e collaborano con le badanti, ma molti altri non lo fanno>. <Non ci concedono le ore di libertà. E se obietto che esiste una Legge, mi rispondono che di badanti appena arrivate in Italia, che accettano quelle condizioni, essendo prive di esperienza, avendo bisogno di lavorare e conoscendo poco la lingua italiana, ne trovano quante ne vogliono>. Nei giorni e nelle ore libere la nostra gente si ritrova in un giardino pubblico, al centro della città. Sulle panchine alcune siedono, mentre le altre restano in piedi intorno a quelle sedute. Ogni persona racconta la propria storia: c’è chi parla al lavoro, chi della sua casa lontana e chi della famiglia. Raramente qualcuno è riuscito a far venire in Italia i suoi familiari e in maggioranza è gente che ha lasciato al paese natale i figli, i nipoti, i genitori, il marito. Ognuno ha sulle spalle una sua storia, e spesso sono vicende tragiche. Noi emigranti siamo venuti qui non per nostra volontà, ma costretti da povertà, miseria e per una enorme inflazione. A casa nostra non si può vivere con un normale salario e tanto meno con le pensioni. Però anche qui si sta sviluppando la crisi dell’economia, con i prezzi che crescono, l’inflazione e il flusso degli immigranti, e allora penso come farà l’Italia che continua a crescere di numero e di gente affamata. Mah!
Tamara Basovych