A SENIGALLIA NACQUE GIOVANNI BATTISTA BUGATTI
DETTO MASTRO TITTA: DALLE SUE MANI NON SI SFUGGIVA
Il termine “Mastro Titta” è ancora oggi sinonimo di “boia”
In tempi recenti più di uno sprezzatore della nuova Piazza del Duomo di Senigallia – in particolare degli stemmi dei papi inseriti nella pavimentazione – pensò che si potesse intitolare la piazza non più a Garibaldi o a Pio IX, ma a Giovanni Battista Bugatti detto “Mastro Titta”, che fu boia di Roma per un periodo che va dal 1796 al 1864. In sessantotto anni di onorata professione, questo nostro concittadino provvide all’esecuzione capitale di 516 persone non solo a Roma, ma in ogni luogo dello Stato Pontificio dove la necessità lo richiedeva.
Mastro Titta era un uomo metodico e registrava sempre le esecuzioni compiute. Il suo taccuino fu ritrovato da Alessandro Ademollo, e da esso un anonimo scrittore, forse Ernesto Mezzabotta, trasse un romanzo che fu pubblicato a Città di Castelllo per l’editore Lapi nel 1886.
Il titolo, Mastro Titta, il boia di Roma, portava un sottotitolo “Memorie di un carnefice scritte da lui stesso”, una finzione letteraria per coprire il racconto in prima persona dei delitti commessi e delle pene comminate ed eseguite.
Il libro è una sequenza di racconti assai coloriti di delitti che ebbero per esito il patibolo per mano del nostro. Alla lettura non solo un divertimento macabro anticipatore di trasmissioni televisive oggi tra le più in voga, ma un vero apprezzamento etico e professionale.
Scrivendo nelle ultime pagine “contro l’atrocità moderna di un’esecuzione con la sedia elettrica”, “Oh! è ben mille volte preferibile Mastro Titta”, prorompe l’autore in difesa del suo protagonista, “che uccidendo legalmente 516 persone, non ne fece soffrire una sola più del necessario, rispetto a questi umanitaristi che assistono, scientificamente, impavidi e cinicamente immobili allo strazio di un uomo”.
LE ONORATE FATICHE DI MASTRO TITTA
Una esecuzione difficile
Non appena la compagnia di San Giovanni ebbe staccato e trasportato il cadavere del Perelli alla sua chiesa, dovetti recarmi alle carceri di Tordinona per pigliarvi il grassatore Carlo Castri, che era stato condannato – per quel giorno stesso – alla forca ed allo squarto. Ci volle un po’ di tempo, perché il reo aveva opposta la più energica resistenza, ai carcerieri, ai birri ed a me stesso prima di lasciarsi porre sulla carretta. Gridava come un ossesso e non voleva saperne di andare al supplizio. Aveva ammazzato barbaramente tante persone, uomini e donne, vecchi e giovani ed aveva una paura spaventevole della morte. Implorava grazia per tutti i Santi del Cielo, e urlava che il Santo Padre rappresentante di un Dio di bontà e di misericordia doveva perdonargli. Lo mandassero pure in galera, lo chiudessero nel più tetro carcere, ma gli lasciassero la vita. Si dovette legarlo per forza e imbavagliarlo affinché s’azzittasse. Quando giungemmo sulla piazza del Popolo, ch’era gremita d’una folla impaziente di assistere allo spettacolo di uno squartamento, si sprigionò da tutti i petti un sospiro di soddisfazione.
– Eccolo! Eccolo!
E siccome era già giunta la notizia delle resistenza che aveva fatto si aggiungeva:
– Ora è in mano di Mastro Titta, non c’è più pericolo che scappi: dalle sue mani non si sfugge.
Avvicinandomi al palco udii ancora distintamente parecchie grida di: viva Mastro Titta; e quando l’ebbi lanciato nel vuoto, col capestro ben annodato intorno al collo, scoppiarono anco degli applausi. Sicuro, mi battevano le mani, salvo a mettermi a pezzi, se fossi disgraziatamente caduto in loro potere in un momento buono. Per fortuna conoscevo bene gli umori della folla e non mi sono mai lasciato lusingare dalle cortesie, come non mi sono mai intimorito per le minaccie.
Ma non era stata agevole l’impiccagione di quell’indiavolato. Non appena toltogli il bavaglio, ricominciò ad urlare, a chiedere grazia e ad invocare le celesti legioni perché discendessero a liberarlo. Non era svenuto come tanti altri, possedeva ancora tutte le sue forze; ma era mestieri trascinarlo e portarlo su a braccia mentre si dibatteva.
Col laccio al collo gridava ancora, fu proprio la corda che gli strozzò la parola in bocca. Impiccato, diventò paonazzo e quasi nero. Aveva gli occhi fuori dell’orbita, i capelli irti come chiodi, la lingua sporgente dalla bocca dura e irrigidita. Quando incominciai a spaccarlo, mi pareva che le sue fibre avessero ancora dei fremiti di vita. Certo non avevano perduto punto del loro calore naturale.
La giornata era rigida; soffiava la tramontana e le sue viscere fumavano, come se fossero state tratte bollenti da una pentola. Al contatto dell’aria algida il fumo si condensava in grasso e deponendosi sulle mie mani, me le rendeva scivolose. Prima di tornare a casa mi ci volle una libbra di sapone per ripulirmele. Questo, commisto al sangue ed al grasso formava una spuma rossastra, che sarebbe bastata per far la barba a un reggimento di soldati. Anche i quarti attaccati alle braccia del patibolo fumarono per parecchio tempo. Non mi era mai accaduto di vedere un fenomeno simile. Dovetti bruciare le travi della forca, perché non sarebbero state più servibili, e ardendo esalavano un puzzo orribile, che uscendo dalla porta di casa mia si diffuse per borgo Sant’Angelo, con non lieve incomodo per gli inquilini i quali mi domandarono se per avventura avevo fatto cuocere delle salsiccie d’impiccati.
Leonardo Badioli