Franca Mancinelli, poetessa di Fano
“Dormivo su una pagina ogni notte bianca”
- In quale città hai studiato?
Urbino e Bologna. - Vivi in una città diversa da quella in cui sei nato? Per quale motivo?
Attualmente no. Fano, dove sono nata, è l’ultimo luogo in cui avrei immaginato di vivere fino a una decina di anni fa. Ora ci sono, da alcuni anni, più che per scelta, per abbandono a una corrente che mi ha riportata, che non mi allontana. - Scrivi o hai mai scritto nella parlata, nel dialetto o nella lingua minore (scegli la definizione che preferisci) del luogo in cui sei nato e/o è avvenuta la tua formazione?
Non l’ho mai fatto e non credo che lo farò. In realtà il dialetto non so parlarlo, non appartiene neanche alla memoria della mia infanzia. Eppure lo sento nella mia lingua, come una traccia antica, quasi sbiadita. - Svolgi un lavoro che ha, in qualche misura, a che fare con la tua attività di poeta? Credo che qualsiasi lavoro abbia ha che fare con la poesia, nella misura in cui ci permette un’esperienza della realtà e allo stesso tempo ci consente di sostare in quello spazio-tempo di solitudine e di silenzio da cui possono nascere le parole. Purtroppo sono più i giorni in cui mi sento come imbavagliata e ammutolita dal mio lavoro piuttosto che nutrita.
- Quali lingue conosci?
Inglese e spagnolo. - A quali lingue accedi in originale per leggere le poesie?
Inglese e spagnolo, un po’ zoppicando, aiutandomi con il testo italiano a fronte o con un dizionario. - Che cosa pensi dell’insegnamento della poesia nella scuola?
E’ un piccolo miracolo che può accadere ogni giorno. “L’aprirsi, lungo il muro, di una porta” (Saba, “Poesia”). - Al di là dell’interesse legato alle tue esigenze di informazione, ti piace leggere libri di poesia?
Sì, certo. Con periodi di maggiore intensità e altri di astinenza. - Quale genere di altri libri ami leggere?
Narrativa italiana e straniera, saggistica. - Qual è il tuo rapporto con la letteratura classica antica (greca e latina)?
L’ho incontrata nell’adolescenza e quindi fa parte di me. Sono pagine sottolineate a matita, con una pressione che quasi incide la carta. Ritrovare questi segni nei grandi classici mi ricorda un compito rinviato. E’ come se in quegli anni avessi delimitato territori in cui poi, in effetti, non sono ancora riuscita a tornare. Là sotto ci sono gli ossi migliori e non so se potrò ritrovarli. - E con i classici dell’Otto e Novecento?
Lo stesso, fanno anche loro parte di quegli anni di ascolto, di scavo nel cuore del mondo, di incontri fondamentali. Pomeriggi trascorsi in qualche angolo appartato della casa o in giardino, per riemergere al richiamo della cena, dai vicoli bui di Dostoevskij , dalla stanza di Proust, dall’oceano di Melville. - Quali sono i poeti della tradizione novecentesca che ritieni essenziali per la tua formazione poetica? Per quali motivi?
Pavese, Rilke, Pessoa, Eliot. Sono stata innamorata di loro, semplicemente. Non c’è cosa che ci trasformi di più di un amore. Per ognuno di loro vorrei sempre un altro giorno di pioggia, un intero giorno senza orologi, di finestre e di ascolto. Negli ultimi anni due incontri folgoranti: Ritsos di “Quarta dimensione” e Bobin di “Autoritratto al radiatore”. - E quali sono le tre opere poetiche pubblicate a partire dal 2000, e scritte da poeti nati dagli anni ’70 in poi, che per te sono particolarmente importanti?
“I ferri del mestiere” di Andrea Ponso, “Horse category” di Sebastiano Gatto, “Con fatica dire fame” di Giovanni Turra, di prossima uscita. Tra gli inediti: “Acquabuia” di Francesca Matteoni, “La ricerca dell’esperienza” di Tommaso Di Dio, “Corpi e città” di Isacco Turina. Tra gli esordi, in lavorazione, il libro di Nicola D’Altri. - Ti occupi di promuovere la letteratura e la poesia attraverso iniziative pubbliche?
Ogni tanto. - Quale ruolo hanno la rete e i social network nel tuo occuparti di poesia?
Ho una breve resistenza alla rete. Scorro velocemente quello che porta. Quando qualcosa mi chiama continuo a cercarlo nella sua esistenza di carta. Per i social network provo un istintivo pudore. Ci resto ad occhi socchiusi, con un certo disagio e forse anche un po’ di paura, come mi puntassero continuamente un faro sulla faccia: “a cosa stai pensando?”. - C’è, nella tua opinione, spazio per un ruolo pubblico del poeta nella società di oggi? Un pomeriggio, mentre camminavo per le vie di Bologna, mi sono fermata un tratto ad appuntare qualcosa sul mio taccuino e un passante mi ha chiesto: “ci fai la multa?”. Ero accanto ad una fila di auto parcheggiate. In quel momento ho sentito le mie parole illuminarsi, per questo potere che mai avrebbero sognato. Sui parabrezza sarebbero state considerate nella loro portata determinante.
- Conosci realtà diverse dalla nostra, per quanto riguarda il ruolo pubblico dei poeti, fuori d’Italia?
Al momento no. - Pensi che si potrebbe intervenire sulla politica culturale attuale e, se sì, in quale modo?
Semplicemente mantenendoci vivi, mantenendo viva dentro di noi la lingua. Resistendo all’anestesia che ci stanno facendo scorrere lentamente, nel corpo, nella mente. L’attrazione del silenzio è molto forte. Più che parole verrebbero versi gutturali, stridii di animali che intuiscono. E invece sembra vogliano ammansire anche la poesia: comprenderla, ricondurla alla “comunicazione”.
da Pasta madre
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.
*
un colpo di fucile
e torni a respirare. Muso a terra,
senza sangue sparso.
Cose guardate con la coda
di un occhio che frana
mentre l’altro è già sommerso, e tutto
si allontana. Gli alberi
si piegano su un fianco
perdono la voce in ogni foglia
che impara dagli uccelli
e per pochi istanti vola.
*
dopo la mietitura
si affacciano allo specchio
con i nodi e le doppie
strade sforbiciate, e molta luce
entrata a mulinare
nel petto come
tra i raggi di una bici.
*
un’esca guidi dentro
le luci dell’estate. Uno spillo
ci regga le pupille, ci fissi
a una parete, decisi
ad appartenere a una qualsiasi
collezione della specie.
*
non distingui un nido
da un intreccio di gesti,
non distingui uno sguardo da un pozzo
non distingui le braccia
dall’edera che stringe in una rete.
A un’ora di sonno da qui
ti svegli fiutando le tracce
dell’uomo che ieri abitava
i tuoi stessi vestiti.
*
torno a immergermi nel corpo
azzurro e buono di una domenica
mattina, fraterna ad altri
senza capelli e occhi, muti
come in un giorno di lavoro
per corridoi
con altre ombre accanto.
Ma in questo chiaro di saliva
cloro e seme, abbandonata ognuno
la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo
bambini con un segno d’acqua in chiesa.
*
sulla riva deserta una donna
lentamente avanza oltre la sponda
fino a coprirsi le labbra nel freddo
di un lenzuolo che si apre
al dimenarsi dei piedi.
Oltre la superficie
una mano scende
a toccarle la nuca. Un attimo
e la corrente si ferma, rischiara.
*
dormivo su una pagina ogni notte
bianca. Il mattino
un’ombra del mio peso, alcune pieghe
e subito voltava: proseguire
è questo a capo del principio,
bocca che passa calore
all’aria come potesse svegliarsi
essere ancora salvata.
(da Pasta madre, Nino Aragno Editore 2013)
da Mala Kruna
e la ragazza arco
appoggia un piede in aria e congiunge
costellazioni di non generati
al grido che ha rotto ora le acque,
appesa la pelle a un ramo cattura
il vento, è una busta della spesa
di desideri altrui
svaniti in uno sguardo
nel treno del mio sangue
salite
***
qua dove ogni parola è ramo rotto
albero di musica in riva al mare
quale piaga insieme siamo
distanti
solo arsa saliva pesto petto,
ma se gli occhi appoggiassero ai tuoi occhi
ogni nodo al sangue sarebbe fiocco.
***
mentre mi scucio e frano
lui bagna il dito sulla lingua e punta l’ago
nell’aria che mi salda.
Ha fatto uno zaino di me in un giorno
l’amore in petali sul pavimento.
Quand’era fondo il silenzio cantava
goccia caduta dentro le costole
si può respirare dalla sua bocca
come l’annegato e camminare
pestandogli i piedi,
ma le gambe vorrebbero fluttuare
come alghe al suono della sua voce
e lui continua a spingere la culla
il suo corpo come un pollice.
Fors’è annodato alle sue dita questo
gomitolo che srotola e svanisce.
***
vorrei con le parole aprirti
questa vita come una mano
che sul tavolo capovolta
aspetta d’essere riempita
stretta nella tua. Vorrei la lingua
a chiudere ogni foro, a intonaco
di questo intreccio di sterpi bruciati.
Saremo due camicie
appese l’una dentro l’altra
per una stagione intera
dove la penombra ha immerso
l’amo negli inverni.
***
il passo sui binari del suicida
svuota le bocche e spezza
le redini di affetti incontrollati.
Ora l’infante potrà camminare
con l’equilibrio che porta le braccia
a sollevarsi inermi dalla terra.
È un giorno strabico, e le persone
s’affacciano sul proprio sangue fermo
chiedendo dove sbuca la corrente
che spinge rossa e perfora gli occhi.
L’obitorio è un lago calmo: le barche
ovali come il seme di una donna,
la carne dove dorme sempre un figlio.
(da Mala kruna, Manni, 2007)