PRIMA CHE IL ROMANZO “LA RAGAZZA DI NOME GIULIO” POTESSE USCIRE LIBERAMENTE E TRADOTTO IN TUTTO IL MONDO, FU SEQUESTRATO PERCHE’ “RITENUTO GRAVEMENTE OFFENSIVO DEL SENTIMENTO COMUNE DEL PUDORE”
E’, INVECE, LA STORIA DI UNA CREATURA INCOMPLETA, CHE VUOLE SAPERE CHE COSA E’ IL PECCATO E APPRODA ALLA SOLITUDINE
NEL LIBRO – DEFINITO DA UNGARETTI AVVINCENTE IN CUI LE PIU’ SCABROSE SITUAZIONI UMANE SI SOLLEVANO ALL’ALTEZZA DELL’ARTE E DELLA POESIA – VIENE RACCONTATA ANCHE SENIGALLIA
Quando giungemmo ad Ancona, volle tornare indietro a Senigallia.
«Ad Ancona no», disse, «sempre in una città; andiamo in un piccolo posto.»
Il treno costeggiava l’Adriatico, ma guardando il mare, mia madre disse:
«A Castiglione c’è il Trasimeno, è ampio; è un lago come non ne ho visti mai».
«Questo è il mare, mamma, il mare è più bello.»
«Hai ragione, Jules, il mare è più bello.»
Effettivamente, il mare era bello.
Nei primi giorni in cui abitammo a Senigallia, non facevo che correre lungo la spiaggia. Era la fine della primavera, si stava giungendo all’estate, il paese era deserto di villeggianti, c’erano solo gli abitanti del luogo e i pescatori
Mia madre mi lasciava libera di fare quello che volevo.
Ella stava riordinando la casa che aveva trovata vuota lungo il mare, non molto lontana dalla fabbrica di cemento. Era una casa di sole quattro camere, a due piani, ma con una terrazza sul tetto e in più la porta che si apriva sulla sabbia.
Erano arrivati i nostri vecchi mobili da Perugia, ma nella nuova casa di Senigallia non andavano bene. Mia madre faceva quasi tutto da sola, aveva soltanto una ragazza giovane e graziosa che l’aiutava e che aveva qualche anno più di me.
«Perché ti sciupi le mani?», le avevo chiesto un giorno, vedendo che non si dava più lo smalto e che faceva addirittura certi umili lavori.
«Ne ho bisogno», mi aveva risposto,. «Avevo le mani troppo curate.»
«Ma le tue mani erano belle e mi piacevano.»
«Anche così sono belle.» E se le guardava al di sotto, si toccava la pelle ruvida.
«Ma lascia che faccia tutto ola Fina», io dicevo. «È una ragazza che sa il fatto suo.»
Serafina sapeva fare davvero molte cose, ma mia madre spesso voleva farle lei. Serafina mi veniva a chiamare quando mia madre lavava i piatti.
«Signorina», mi diceva, «la signora lava i piatti. C’è anche la soda. C’è l’acqua calda.»
«Mamma», io dicevo, «perché lavi i piatti?»
Lei non si voltava; girava appena la testa con i capelli un po’ spettinati che ricadevano in ciocche sul collo e mi diceva:
«Vai, corri sulla spiaggia. Ti vedo di qui».
Davanti al lavandino c’era una finestra e mia madre poteva osservarmi quando correvo, anche se andavo lontano.
«Non ho voglia di correre», rispondevo. «Sto qui e ti aiuto. Asciugo le posate, le pentole.»
«Ma io cosa faccio?», chiedeva Serafina con le mani lungo i fianchi. Aveva una treccia bionda per le spalle, grossa e corta, legata con un nastro nero.
«Tu stai a guardarmi», le diceva mia madre.
«Ma io sono la serva», rispondeva Serafina.
«Serva non si dice; servi non ce ne sono.»
«Lei è la padrona e io sono la serva.»
«Non sono la padrona», concludeva mia madre. «Chi è padrone di qualche cosa?»
Serafina si stringeva tra le spalle e veniva da me a chiedere come doveva fare. Io le proponevo allora di uscire insieme. Andavamo lungo il mare, sedevamo sul molo.
Un giorno che incominciò il caldo, facemmo il bagno.
Serafina aveva un costume lungo e vecchio, che le copriva anche la schiena.
«Perché non ti scopri la schiena», io le dissi.
«Non posso, perché il costume è fatto così; è chiuso.
«Tiralo giù.»
«Se mi vede qualcuno…», disse, «e poi non si può.»
Guardammo intorno ma non c’era nessuno. Serafina si tirò giù il costume.
Era una ragazza bianca di pelle e diventa subito rossa per il sole.
Mi piaceva parlare con lei; una volta le dissi che mi ero fidanzata. Serafina mi confessò che anche lei lo era, con un ragazzo che faceva il meccanico, si chiamava Amerigo.
«Vorrei conoscerlo», dissi. «Perché non gli dici di venire sulla spiaggia?»
«Non può perché lavora; è libero solo dopo le sei e poi e poi la domenica.»
«Allora ci vedremo domenica, andremo a fare il bagno.»
La domenica mattina mia madre si preparò per andare in chiesa. Si vestì di scuro, non si dipinse e appoggiò un velo sui capelli.
«Vieni con me in chiesa, oggi andremo a pregare.»
Era una delle prime domeniche che trascorrevamo in Senigallia, e io avevo appuntamento con Serafina e Amerigo verso le undici per fare il bagno.
Andammo in chiesa alle dieci e mezzo. Io ero vestita con un abito bianco a fiori azzurri e avevo un cappello bianco, avevo i guanti e le scarpe bianche, avevo un libro da messa rilegato. Mia madre s’ inginocchiò, pregò per molto tempo sempre con la testa china. Io non potevo pregare perché pensavo che dovevo correre al bagno.
Non mi piaceva stare in quel banco così duro che mi faceva male alle ginocchia, tra tutta quella gente umile che ci guardava perché non ci aveva mai viste. Così, a un tratto, mentre mia madre era maggiormente assorta in preghiera, mi alzai e uscii; raggiunsi la porta senza che mia madre se ne accorgesse e appena fuori mi diressi alla spiaggia.
Era una domenica mattina ancora fresca, ma limpida e il mare era piccolissimo. Arrivai al posto dell’appuntamento, che era poco distante dalla mia casa, ma Serafina non c’era ancora.
Mi sedetti nella sabbia e mi tolsi le calze e le scarpe, mi tolsi i guanti e il cappello. Vidi non molto lontano un ragazzo vestito di blu che mi guardava. Aveva i capelli rasati e gli occhi molto neri. Mi guardava fisso e stava fermo, con le mani in tasca.
Anch’io lo guardai, una o due volte, ma poi ero infastidita da quei suoi occhi neri.
Mentre giocavo con le pietre tra la sabbia, giunse Serafina accaldata perché aveva fatto tardi. Vide il ragazzo che stava fermo e lo chiamò:
«Amerigo!»
Vennero tutti e due accanto a me. Serafina era rossa per l’emozione.
«Signorina», mi disse, «questo è il mio fidanzato Amerigo».
«Piacere», dissi io, «piacere», e non sapevo più che cosa dire perché Amerigo continuava a fissarmi senza aprire bocca.
«La signorina si chiama Jules», disse Serafina ad Amerigo. «Prima stava a Perugia».
Amerigo fece un gesto come dire:
«Ah», e stava sempre con le mani in tasca.
«Facciamo il bagno?» dissi io. «Il costume ce l’ho sotto».
Infatti nel vestirmi, l’avevo infilato sotto la sottoveste, senza che mia madre se ne accorgesse.
«Anch’io ce l’ho sotto», disse Serafina e si sfilò il grembiule dalla testa. «Spogliati», disse ad Amerigo.
Egli si allontanò di qualche passo e ci voltò la schiena. Io mi girai a guardarlo. Si slacciava il calzoni a fatica, poi si tolse la camicia.
Era un bel ragazzo, con un corpo forte e ben fatto, anche se un poco tozzo.
Anch’io mi tolsi il vestito e poi la sottoveste che aveva dei pizzi e persino un paio di mutandine che avevano anch’esse dei pizzi, ma queste le nascosi perché avevo vergogna.
L’acqua ci sembrò fredda, ma poi ci buttammo dentro a capofitto. Amerigo nuotando mi apssò vicino, mi passò vicino due o tre volte; una volta quasi mi toccava.
Che simpatico ragazzo era Amerigo.
Ci divertimmo molto con lui quell’estate a Senigallia; tutti i giorni alle sei di sera andavamo a fare il bagno insieme, con Serafina, e qualche volta se Amerigo non aveva molto lavoro andavamo anche da mezzogiorno all’una.
Un pomeriggio mia madre trattenne Serafina in casa per certi lavori. Essa mi pregò di avvertire Amerigo che ci avrebbe raggiunti più tardi (mia madre era all’oscuro di tutto) e io andai da sola a fare il bagno con lui.
Nuotammo molto e anche un po’ al largo dove l’acqua era profonda.
Poi ci sdraiammo sulla spiaggia, dietro una barca. Io mi giravo nella sabbia, tanto che dopo un poco ero tutta sporca di sabbia, il costume era diventato pesantissimo.
«Amerigo, guarda cosa sembro», gli dissi.
Egli si voltò appena e mi fissava, poi lentamente mi passò la mano sulla schiena dicendo:
«È la sabbia, bisogna fare ancora il bagno».
Sentii la sua mano ruvida sulla sabbia ruvida, mi fece uno strano effetto, perché era la sua mano sulla mia schiena.
Invece di toglierla, lui continuò a tenere la mano lì sopra e sembrava che non sapesse più come fare.
«Faccio il bagno, Amerigo?», io gli dissi.
Gli davo del tu, mi piaceva chiamarlo Amerigo; egli non mi chiamava mai Jules. Questa volta non rispose, tolse la mano dalla mia schiena.
«Perché stai così zitto, Amerigo?», continuai. «Pensi a Serafina?»
«Non penso a Serafina», rispose, scuotendo il capo. «Penso ad altre cose.»
«Dimmene una», pregai.
«Penso che sono qui», disse Amerigo.
«Qui dove?», chiesi, e mi venne il cuore in gola.
«Qui sdraiato», diceva, e si voltò sul dorso, con il viso verso il cielo. «C’è il cielo azzurro», continuò.
«Amerigo», io dissi, «perché ti chiami Amerigo?»
Sorrideva con il viso voltato verso il cielo, la sabbia gli si attaccava ai capelli corti mezzo centimetro, mi venne voglia di toccare la sua testa per sentire i capelli corti che pungevano.
Ero gettata a tesa sul ventre e strisciai verso di lui, gli toccai la testa.
«Pungono i tuoi capelli», dissi.
Egli mi attirò verso di sé un suo braccio mi teneva ferma alla vita, e stava sempre così sdraiato con il viso voltato verso il cielo.
«Sono tutta sporca di sabbia, Amerigo, sporco anche te», dicevo io sottovoce, come se qualcuno ci potesse udire. Ma non c’era nessuno, Serafina non si vedeva, la barca faceva ombra dalla nostra parte.
«Mi piacerebbe avere» egli disse, «una casa per stare sempre vicino al mare, ma non a Senigallia.»
«Senigallia è un paese bellissimo», risposi, «Io ce l’ho una casa vicino al mare.»
«Ma io voglio andare via da Senigallia. Voglio andare in un paese che non si chiami Senigallia.»
«Dalle altre parti non c’è il mare come a Senigallia», dissi io, e guardavo infatti il mare che era fermo e azzurro, senza nessuna onda.
«Non importa che non sia come a Senigallia, importa che sia il mare.»
Mi avvicinai a lui. Anch’egli si avvicinò a me.
Sentivo il suo corpo di giovane ragazzo accanto al mio corpo, ansimava un poco come si sentisse male.
«Che hai, Amerigo?», gli chiedevo, quasi su di lui. E poi: «Mi piace sporcarti di sabbia».
«Non fa niente», egli diceva, stringendomi, sinché le sue labbra incontrarono le mie; fu quasi casualmente, perché eravamo troppo vicini. Appoggiammo le labbra e stavamo con gli occhi chiusi, avevamo labbra di ragazzi che non si aprivano.
Egli mi chiamò per nome; disse il mio nome Jules.
Ricevevo in quel tempo notizie di Lorenzo.
Mi scriveva una lettera ogni due o tre giorni. Mi raccontava tutto quello che succedeva a Perugia, voleva anche sapere quello che facevo. Io gli rispondevo svogliatamente e sempre quando mi aveva scritto cinque o sei lettere che chiedevano il perché del mio lungo silenzio.
Lorenzo era rimasto molto male nel sapere che non avevo ripreso la scuola, mi aveva rimproverato.
Io gli scrivevo:
«Non è colpa mia se non vado a scuola. Mia madre dice che mi preparerò per ottobre e darò tutti gli esami. Adesso sono in vacanza, vado al mare a fare il bagno con i miei amici di Senigallia, ma riprenderò presto a studiare».
Erano tutte storie, perché di studiare non avevo voglia, trovavo noiosissimi i libri. Anche Amerigo era di questo parere, che nei libri non ci si capisce niente. Io un giorno lo scrissi a Lorenzo:
«Il mio amico Amerigo la pensa come me, che andare a scuola non serve a niente».
Lorenzo mi scrisse per espresso, volendo sapere notizie dettagliate su Amerigo.
«Chi è, è un ragazzo che ti piace?»
Io gli risposi che mi piaceva, ma che ero sempre la sua fidanzata; anzi, quel giorno stesso dissi ad Amerigo che il mio fidanzato Lorenzo sarebbe arrivato a Senigallia e saremmo andati tutti quanti a fare il bagno.
Non era vero, perché Lorenzo non aveva mai scritto che sarebbe venuto a Senigallia, lo facevo apposta per vedere come si comportava Amerigo.
Egli arrossì, si limitò a fare un gesto con il capo, Serafina che era con noi invece era tutta elettrizzata, parlammo per un’ora della gita che avremmo organizzata noi quattro.
Lorenzo non venne, Serafina mi chiedeva quasi ogni giorno notizie, io rispondevo che doveva rimandare per ragioni di famiglia, essa a questa risposta si impressionava.
Erano giornate di estate e Senigallia si stava riempiendo di gente, c’era un sole caldissimo, il mare era sempre bello, mia madre aveva affittato una capanna allo stabilimento e voleva che andassi con lei.
Dovetti lasciare i miei amici, conobbi altre ragazze e ragazzi delle capanne vicine alla nostra.
Qualche volta pensavo con un certo stringimento al cuore ad Amerigo che stava lavorando mentre io ero al mare, era sporco con la sua tuta da meccanico, sdraiato a terra sotto le macchine, e quando venivano le sei io non potevo andare come una volta ai nostri appuntamenti, diventavo nervosa e persino sgarbata con mia madre. Pensavo che con Amerigo c’era solo Serafina, che si divertivano insieme, che forse parlavano male di me.
Una sera che uscii di casa sulla spiaggia, mentre avevo assicurato mia madre di restare nella mia stanza, mentre lei era andata al cinema, incontrai Amerigo nel buio, a pochi passi dalla porta.
Stava sulla sabbia, scorsi il suo corpo riverso, anzi vi inciampai ed egli mi chiamò con una voce esilissima, un filo di voce, tanto che dubitai di avere udito.
Mi inginocchiai accanto a lui e scostandogli le braccia dal viso, potei capire che stava piangendo. Quietamente, quasi senza singhiozzi, le lacrime gli scivolavano dalle guance; ogni tanto egli si toccava gli occhi con le mani e gli occhi si erano sporcati di sabbia.
«Mi bruciano», disse. «C’è andata la sabbia dentro.»
«Vieni a lavarti», dissi io. «In casa c’è l’acqua.»
«Mi laverò con quella salata», rispose Amerigo, e anzi si alzò dirigendosi verso la riva.
Io gli tenni dietro, giunsi sin dove la sabbia era molle, ci togliemmo i sandali. C’era bassa marea, Amerigo andò avanti, si lavò gli occhi, poi camminammo lungo il mare bagnandoci i piedi.
«Com’è calda», io dissi. «Si potrebbe fare il bagno.»
Amerigo non rispose.
«Non vuoi fare il bagno?», chiesi. «Lo facciamo senza il costume.»
Ancora una volta egli tacque e io incominciai a sentirmi nervosa.
«Perché non mi rispondi?», gli dissi. «Sei un maleducato.»
Mi camminava vicino e ancora non diceva niente, nel buio lo scorgevo confusamente, i suoi lineamenti mi sembravano nemici; allora mi fermai di colpo e improvvisamente gettai sulla sabbia i sandali che tenevo in mano, feci cadere a terra il grembiule da casa e ogni altra cosa.
«Faccio il bagno», gridai. «Lo faccio per farti rabbia.»
Mi ero inoltrata nell’acqua, ma l’acqua era bassa, mi arrivava appena al polpaccio. Davanti a me si distendeva il mare, piatto e cupo, sembrava senza fine, un orribile mare nero di acqua diventata gelata.
Perché era freddo il mare? Forse l’aria era fredda, non l’acqua, e quasi a convincermi che era così mi spinsi fin dove non si toccava più.
«Amerigo!», gridavo, cercando di rendere gaia la voce. «Vieni a nuotare, è così bello!»
Amerigo non rispose e non venne, anzi mi sembrò che se ne fosse andato. Sopra di me si allargava il cielo oscuro e le stelle non bastavano a dargli luce; ero sola, nuda nel mare.
Allora incominciai a piangere.
*Milena Milani (Savona, 24 dicembre 1917 – Savona, 9 luglio 2013) è stata una scrittrice, giornalista e artista italiana.
Negli anni Sessanta il suo romanzo, La ragazza di nome Giulio, edito dalla casa Longanesi, diventa un caso letterario ed editoriale. Apparso nel 1964, il libro è al centro di polemiche e viene presto sequestrato, mentre sia l’autrice che lo scrittore Mario Monti, direttore di Longanesi, sono processati e condannati a sei mesi di reclusione per pubblicazione oscena oltraggiante il comune senso del pudore, il 22 marzo 1966. Numerosi intellettuali italiani, a cominciare da Giuseppe Ungaretti, si schierano in quell’occasione a fianco della Milani che viene successivamente assolta con formula piena nel processo di appello nel 1967, con la motivazione che: “Gli spunti erotici si inseriscono armoniosamente nel tessuto narrativo e rispondono alle esigenze descrittive che il tema della donna condannata alla solitudine suggeriva e che sono state felicemente realizzate nell’unità poetica dell’opera”
“(…) Se adesso faccio il bilancio di quegli anni, contribuiva a demolirmi, la scomparsa dell’essere amato, il cambiamento radicale di quanto avevo fatto sino ad allora, la perdita del lavoro, le ristrettezze finanziarie, la responsabilità di mia madre, di cui dovevo occuparmi, dopo la morte di mio padre, e soprattutto quell’etichetta che mi avevano messa addosso, la pornografia che non praticavo, ma che gli altri per forza volevano riscontrare in me. Ebbene, in tutto questo sfacelo, io continuavo a credere nei valori morali. Sentivo anche di essere uno scrittore, un poeta, anche se gli altri mi negavano questa qualifica. Sentivo di avere il dovere di proseguire, di scrivere nuovi libri, di scavare in nuovi personaggi, in nuove realtà. Andavo contro corrente, contro i tempi che non si evolvevano, contro i tabù che da sempre hanno oppresso la donna, condannandola al margine; e questa fiducia, questa specie di gioia, di sicurezza nelle mie possibilità, non era presunzione, ma speranza che un domani essa venisse riconosciuta. Non mi importava di essere mal giudicata. Mi consolavo con le parole dei poeti, di quelli che erano miei maestri, come Cardarelli, Ungaretti, Quasimodo. Forse appartengo anch’io alla loro generazione, anche se sono più giovane, anche se l’oggi mi interessa e mi attrae, anche se l’oggi è l’indagine dei miei ultimi libri. Ho ancora una cosa da dire, a proposito de La ragazza di nome Giulio: è un romanzo in cui continuo a credere, perché la protagonista ricerca la verità, e anch’io come lei, come tutte le donne e gli uomini della terra, non smetto di cercarla.”
MILENA MILANI,
Milano martedì 7 novembre 1978
Grazie per avere messo in risalto questa coraggiosa scrittrice italiana. Vi leggo sempre con molto piacere. Scovate delle “chicche” preziose. Mi sono subito procurata il libro. Tra l’altro ho scoperto che quest’anno si festeggia il centenario: Milena Milani è nata 100 anni fa!Da non credere, per il coraggio dimostrato da donna libera qual era.