GLI ULTIMI CHE PARLANO UNA LINGUA ORAMAI ESTINTA

Marco Ferri registra in queste storie la desolazione della sua regione, le Marche, dove la vivacità culturale di pochi decenni fa si è inaridita. Restano sarcasmo e tristezza

I vecchi sono scemi etimologicamente perché orfani di parti fondamentali della vita

La solitudine, la disillusione e lo sconcerto trasformati in astio, l’autoderisione

vecchi scemi

Marco Ferri (Fano – Pu, 1950) è un valido poeta, autore anche di prose tutt’altro che trascurabili. Il volumetto recentemente stampato da Italic Pequod che raccoglie 13 suoi racconti sotto il titolo Vecchi scemi è il suo esordio da narratore, ma prose di Ferri erano già state pubblicate nel 2009, quando la Cassa di Risparmio di Fano aveva stampato brani scelti dai suoi diari in un volume, Cari inganni (1988 – 2008), che prendeva in prestito il titolo dalla più lapidaria e dura poesia di Leopardi, A se stesso.

Quei frammenti di diario permettono di capire meglio i racconti, che non sono solo il frutto di una poetica e il precipitato (quasi il bilancio) di una biografia, ma anche il sintomo di un disagio culturale che potrebbe riguardare vari centri della provincia italiana. Non è certo per nostalgia dei bei tempi andati che il poeta nei suoi diari segnala un lento, progressivo inaridimento di una cultura artistica e letteraria, come quella delle Marche, vivace e fiorente fino agli anni Ottanta e Novanta, poi via via ridottasi, anche per la scomparsa di alcuni dei suoi protagonisti, all’”amarcord” di ultracinquantenni che nelle loro ormai sporadiche riunioni constatano, sulle soglie del nuovo millennio, che il passaggio del testimone alle nuove generazioni non c’è stato, e che il “desiderio di leggere e ascoltare” è crollato di fronte al crescente “impulso di saltare sul palcoscenico”.

Riviste letterarie di buona qualità, scrive giustamente Ferri, pullulavano nelle Marche di trent’anni fa; era “una fioritura, un fenomeno culturale, un caso nazionale, in attesa di lettori…”. Se già allora (questa nota è del 1994) si percepiva uno squilibrio, tutto a vantaggio del numero degli scriventi, rispetto a quello dei lettori, nel corso del decennio seguente è parso a Ferri sempre più evidente il fatto che quella fioritura culturale era destinata a transitare direttamente dalle pagine delle riviste alle pagine della storia della letteratura, senza incidere sulla realtà, sui comportamenti, sui progetti nei territori.

Ex sessantottino, convinto sostenitore della cultura come motore del cambiamento della mentalità e dei costumi, Ferri elabora questa consapevolezza con un crescente senso di disillusione e scontento, anche perché le relazioni all’interno della rete culturale e sociale che conosce gli sembrano sempre più governate da un codice di convenzioni che perdurano nonostante siano crollate “le fondamenta” di quelle relazioni.

Da qui nasce l’idea di scrivere “un romanzo parodico in cui scaricare tutte le disillusioni di questi anni” (luglio 2004). Ed eccoci, 13 anni dopo, ai racconti del libro Vecchi scemi, che sono forse il risultato di quel progetto di romanzo mutato in corso d’opera. Le idee e le sensazioni che il libro veicola sono forti, nascoste appena dietro le pagine iniziali che ricordano Carver, per la prosa breve e nervosa – ma è una falsa pista.

Ognuno dei protagonisti di questi racconti si accorge, con sintomi dolorosi che si propagano dalla coscienza al corpo, di essere l’ultimo parlante di una lingua ormai estinta in una comunità i cui costumi e la cui cultura sono già completamente tramutati. La solitudine portata “come una seconda pelle”, la disillusione e lo sconcerto trasformati in astio (in primis contro se stessi) e autoderisione, l’impossibilità di vivere in un centro urbano ingombro di veicoli e di oggetti, ma privo di umanità, il mancato colloquio con il paesaggio che ormai si è fatto indecifrabile e meno che mai adatto a diventare il luogo della memoria: tutti questi aspetti costituiscono la base di una scrittura che può sembrare a tratti comica solo se non si è disposti a vedere nel sarcasmo una reazione al dolore. “Tutto è insensato, tranne il dolore”, dice appunto Osvaldo assediato dai suoi mali incomprensibili poco prima di decidersi ad andare al Pronto soccorso, in cerca di cure e di “calore umano”; e più che a Leopardi verrebbe da pensare a Trent Reznor che canta “I focus on the pain, the only thing that’s real”. Ma le rockstar non vanno all’ospedale a piedi, come fa invece Osvaldo.

Questi vecchi sono scemi etimologicamente perché orfani di una parte fondamentale della vita: le loro relazioni sociali si sono quasi esaurite, i loro amici non ci sono più, i più bei momenti vissuti insieme sembrano, nel ricordo, appartenere alle vite di altri, e la vita nuova che ha sostituito quella in cui (forse) un tempo loro erano integrati parla un linguaggio sconosciuto, alieno. Eppure ridono, di tanto in tanto, questi vecchi scemi, anzi sogghignano, ridacchiano singultando, sghignazzando da soli.

Non sono affatto come quei vecchi saggi tutti d’un pezzo che non ridono mai. I vecchi di Ferri sono invecchiati male, hanno corpi malconci che faticano a riconoscere come propri. E ridono perché non sono maturi, e non hanno imparato niente: non hanno saggezza, ma qualche volta vedono la verità.

di Matteo Giancotti, giornalista de Il Corriere della Sera, da “La Lettura”

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Illustrazione di Chiara Leonardi

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