Paolo Maria Rocco, nato a Napoli ma residente a Fano è un poeta. Autore non solo di libri di poesia ma anche di romanzi. Ha scritto e pubblicato traduzioni dal francese e dal bosniaco/croato. Si occupa anche di critica letteraria.
Qui di seguito alcune sue poesie, edite e inedite.
*
Nel silenzio loro dovuto, parole
umane: idee (proiettata nell’azzurro
cielo, audace forma che hai detto
intendo evocare, sola parola che mi pare
udire) che dite? Di un indizio, e nel silenzio
a noi dovuto, che turbina in uno sciame rutilante
di astri una parcella di assoluto: la chioma bionda
Che calamita, è un’effusione abbagliante nello spazio
alato (della cometa, pertanto, ecco
il cascame, il fuoco che ramazza concetti
ingannatori nel nero gelo siderale) congedata da questo mondo
di lemmi, di assonanze, del più esperto anacoluto
non può che diventare puro ingegno
scintillante anche la paccottiglia cantante nel cielo
(tratta da “I Canti”, BastogiLibri, 2016)
*
Dal corso delle nostre idee voglio che più ti allontani
e dalla complessità di disegno unitario: più che la vita
ti voglio guidare le mani verso un mondo
di regolata decostruzione, nell’esatto barlume
che ti riveli al tatto l’architettura di un incanto
sovraumano. Una dispensa dal male che, osserviamo, è stato
ùfatto – e dal suo medicamento (ma io lo rivedo il congegno
Meccanizzato compiere una rotazione semiuniversale
che ci riporta indietro) – dal tempo. Adesso io sono
più confuso nel più incostante moto (come vado mi sembra
a ritroso, che dico, di tornare dov’ero forse arrivato): mi aiuta
il respiro di polvere, più che la sua conoscenza
l’affanno, mentre pertanto sono fermo e corro
tanto intorno a una sembianza di mito. Già perento
Ti guardo: e nell’occhio insolentito scopro che sei migliore
oggi di quanto ho immaginato per il tuo malcostume
di apprezzare (che altro potresti fare, mi chiedo
se non assaporare quanto ancora ti manca) nella lingua
l’omologazione quanto il sentimento supponente comune
della vita, e per il tuo piacimento di stare in un modo vibrante
al nudo desiderio, e nuda sommessamente al suo perentorio invito
(tratta da “I Canti”, BastogiLibri, 2016)
*
Si increspa la radura al vento che la tocca, diventa
all’imbrunire un lungo moto d’onda nell’indaco
soffuso della volta, che fa tremare il cuore. Da un’aria
mosso che commuove lentamente mi piego
al soffio ambiguo di sussurri che mandano un mare
di parole su parole. Non giova a te ascoltare
che accordi il senso dei pensieri all’unisono
col giorno che non muore? (“Tu dì com’era
il sapore dei tuoi baci, ancora
prima che sulle tue posassi le mie labbra, avevano
l’ardire forse dei rapaci sulla preda, o l’azzurro
di una distesa oltremarina, com’era
tu lo sai, dimmi com’era…”). Cosa vuoi mai
che fosse stato? Mi sembra di ricordare
che il cielo prima coperto s’era spogliato, voli di trilli
nel prato si rincorrevano tra loro, così lontano poi
non era stato il grido dell’uomo che diceva – ecco
di questo dilungato inverno
la legna disseccata per il fuoco… (“io così fui sola
nella snervante attesa che si prova quando si chiama
ad un concerto la natura e il mondo intorno
gli si avvita reticente ad una voce
nuda. Mondo che tu sei mio dunque
non parli?…”)… non riluttante ad un incendio fu data
alle fiamme una stagione nuova, ché nulla di un’esistenza
si ignora della cenere nell’esperienza del tuo accedere
nell’anima, tu più che concetto del tempo essendo stata
vita già nel cuore degli elementi e viva poi sulla mia bocca
(tratta da “I Canti”, BastogiLibri, 2016)
*
Tu non ti allarmare se poi mi allontano, se torno
all’ordinario, sui tetti, dove eravamo. (Né diventava
meno sicura nel mentre il giorno si inoltrava
la sua figura eretta sul ripido declivio, nell’arco
che si tende tra gli estremi poli. Tutto abbracciava
dall’altura e non paga di ricongiungersi al creato
mentre scrutava il vago sotto di lei che brulicava
, e della cui apparenza una grazia instilla ambita
che fino il cielo della sua scienza inebria. Allora il delirio
l’anima occupava, sospesi gli atti della coscienza
Triste, l’immagine invocava, una fantasia
o un ricordo che fugge dalle folle e lesto
si rintana nello spazio obliquo
del pensiero). Né avrei potuto
altrove: come un richiamo
risonante nella caccia desta l’allodola sul ramo
un sibilo ho sentito penetrare nell’intreccio: eri tu
che risoluta e cieca al pari di una freccia
di corsa ti sei lanciata aperte le braccia dall’altezza
verso l’aria tersa che netta la fine del giorno, lo accarezza
(tratta da “I Canti”, BastogiLibri, 2016)
*
Non è una sera dalla quale ritrarsi, una sera
che parla di te invita ad appartarsi, come il cane
nella tana. Pertanto questa sera ho pensieri
, come tutte le sere, che vengono dal buio
fitto. Mi metto in ascolto cercando di carpire
il senso di lettere vaganti, di suoni
che si amplificano, alti e distanti, e cauti poi
come le onde dilagano su un deserto
arenile. Alle vibrazioni persino mi scopro
Più attento, alle variazioni minime
del tono. Proprio come fossi tu
l’acqua danzante, la voce solista
del coro. Questa sera che arriva con parole
che mordono, il cuore risuona
come una cassa armonica: com’era timoroso
prima ora è vibrante di una nota che sostiene
alla sua altezza, e alla tua, mentre ti declini
nella notte come una musica, inaudita
(tratta da “I Canti”, BastogiLibri, 2016)
*
1916: frisson de l’âme (a Dino Campana)
«In luogo di un’assenza di certezze
comincia nella notte il mio poema, il viaggio
che si smarrisce già tra i faggi del Sacro sasso
e il Cadibona, lassù nell’imperfetto, nel colmo
delle risonanze, e sotto la calotta rigida intessuta
di sferiche luminescenze, che pare di lustrini una divisa
nobilitata nel tempo della guerra. Per quanti nell’inquietudine
abbiano mai trovato appagamento, io so che esiste
una più lucida prostrazione appuntata sul petto, un nodo
nel sentimento della vita che va con una spietata ragione
delle cose illustrando per le strade il pieno compimento
del destino. E poi, ti dico, vi sono sentieri di campagna
, e una stagione, lungo le annunciate macerie del mondo
che ardiscono della medaglia il suo rovescio, nell’idioma
del mistico luogo di una grazia: io da Rifredo verso il Passo
Vado del Giogo tra le alture e la sterpaglia del camminamento
sulla schiena d’Appennino, in solitaria ascesa
: quanta passione nel mio sogno alimentata e quanto
, non poco, ora mi strazia questo spazio di granito
e di calcare tra carrarecce e mulattiere, e abeti e tigli
e rovine digradanti sul fianco dei monti e l’eco dei colpi
assordanti di cannone nel sentore vivo del cuore cui rassomigli
e al quale, mia amata, vale l’attesa: je vois que nous
purrons être des amis – io ti scrivevo – si vous
le voulez, e nella lingua cui ti è grato il deserto altopiano
una grammatica per te ho declinato dei segreti fremiti
dell’esistenza: a te non più straniera, ancora indomita
non esente com’è, o mia Sibilla, dalla stranezza il bello poi che
, tu dici, è pervasa tra il Barco e l’Infinito d’una visione
nella notte d’estate che il cielo interpella come un grido»
(tratta da “I Canti”, BastogiLibri, 2016)
3.
Passeggiare prediligo sulla sponda, rapida
a volte con il pensiero che s’accorda, hai detto
per le sue motili forme al passo, e incrociare
il cammino dei viandanti per immedesimarmi
nel caos delle mie stanze, perché amo incespicare
nei suoi riverberi come della fronda il fitto intreccio
s’avviluppa su se stesso per ritrovarsi
ancora smarrito: è tutt’un avanzare cauto ora e spedito
tra approdi e riviere, imprevedute e rigogliose anse
, un repentino virare nel canale e di nuovo uno spiegare
le vele e uno stivare insieme nelle viscere
Bagliori di fanali, la rigida ossatura
di un palazzo, la sua allusione nuda e l’occhio
che s’adegua alla penombra di lampade
oscillanti sulle strade, le volute di vapore
dalle grate, i pennacchi dai camini, un’idea di fumo
da osteria. Farei di tutto a meno se non fosse giusto
ch’io sia per questo carico che porto: talvolta si tratta
di navigare a vista, di stare da una parte, una moneta
da pagare il procedere governando tra gli argini
la piena, l’affollarsi delle immagini o il dirupo
delle impressioni, l’animo che declino con la vita
(tratta da “Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie”, bilingue, Ensemble edizioni, 2019)
4.
Stari Most
Il guizzo di una piuma, il flettere
di un’ala, com’ero appena prima, dice
che spiccassi nella Neretva il volo. Ecco
il vortice dell’aria, porta via
quello che è stato, aspetta
e si declina indecifrato, divino
sottotesto all’interrogativo ronzante
sui cavi, sui gomiti ossuti
dei lampi (che il suono sembra
del cuore che smania, le corde
Che stanno vibranti): il crepitio sordo
dei gridi, ora lo senti?, che svaria
nel torbido dell’anima, e al torreggiare
cupo del traliccio a mezza costa ti dice
che una parola sullo Stari Most tacque
dell’altra nell’avvitarsi d’Halebija a Tara
dell’onda sopra l’onda, e se poi guardi
nell’abisso, che ha la sua lingua
pure il fiume, il suo moto
che non indulge e non ha sosta
(tratta da “Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie”, bilingue, Ensemble edizioni, 2019)
7.
Sulle assi di legno un tramestio
di sedie, uno scalpiccio di passi
e il soffio impetuoso che entra
dall’ingresso: vibra l’impiantito
vecchio del bar sul Bulevar Ezhera
Arnautovića e nel telaio l’opaco
drappo sintetico s’agita come della finestra
un vetro rotto. Guardo il fiume dalla terrazza
sospesa sulla Bosna: un poco scorre
contrariato, il vento alza un tappeto
di minute onde trasversali, un disegno
geometrico in filari trasparenti di rayon
Tenta un riflesso dello sguardo tuo di seta
pura che abbozza appena un disappunto
con il tempo che trascolora, e repentino
si ritaglia una licenza sull’arco delle ciglia
stilizzato nel decoro del moresco. Ti rassomiglia
l’estate che distende le sue membra, ti dico
mentre esco ancor più avvinto nel bizzarro
autunno, le labbra tue però non hanno eguali
che indago nell’incanto del porgere parole
nella forma di un’idea di vita e di natura
che scalpella dall’esistenza il tetro
furore della terra, alienato persino dal linguaggio
(tratta da “Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie”, bilingue, Ensemble edizioni, 2019)
11.
Siccome in guisa di canzone qui ovunque scorre
un fiume, quand’anche ora una visione
io avessi d’assecondare a Travnik, l’impeto
suo mi parla tra i grandi salici di te, e di una sosta
alla sorgente d’Acqua Blu, il limpido torrente
della Plava Voda che fin nel cuore si rivoltola del borgo
antico, gorgogliante annuncio il cui riverbero rintona
del fiume Lašva fin nel porticato
della colorata moschea di Solimano: nel mentre
pratichi di alberi frondosi e delle purpuree viti
la notizia conquistata sui sacri muri della Šarena
Dipinti dal profano, un voto dalla Bosanska immota
pare l’invito a penetrare la memoria che non si oblia
e di Andrić la dimora: pervasa dal profumo della valle
la ragione è questa per la quale credo, hai detto, il cuore
avessi aperto ai sensi, protetto dal Vilenica e dal Vlašić
i monti delle dominazioni degli slavi, di austroungarici
e ottomani, e dal colle sul quale la granitica Fortezza
s’innalza sulla Stari Grad… ma è cosa poi davvero
saggia, mi dico, che mai tramonti la bellezza come di lei
la voce che l’ambizione smonta… Non è lavata ancora
lo sappiamo l’onta che macchia l’altura di un massacro…
… e mi porta dove prima ero mai stato, s’aggrada
laddove l’arma ha fronteggiato l’amico con l’amico, e la città
vecchia ha operato l’inganno della rivalità di fedi antitetiche
e distanti. Come volesse dirmi che non scalda
se non curi la sua fiamma il fuoco, è disarmante
la storia che s’appressa alla cenere rovente
di un’idea come nel cuore a poco a poco il soffio
dell’ardore rigenera la vampa dalla brace: scatena il caos
assoluto, incendia l’aria di cui si alimenta il rogo,
ti eleva per un tuffo a precipizio nell’acqua spumeggiante
e confortevole del fiume, nel ventre da cui tutto ha inizio
(tratta da “Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie”, bilingue, Ensemble edizioni, 2019)
22.
Un corteo avessi disposto di parole
avrei detto com’è bella la macchia
del colore che si estende dai fiumi
ai monti in un’alacre sfumatura
iridescente, com’è intrigante l’interrogante
accoglienza della gente che interpella
quando s’annuncia inatteso
ospite il presente nella fisionomia
dello straniero, nei cui occhi vede se vuole
la scintilla di colui che nulla presume
Di conoscere che non sia vero
all’anima, tangibile
come il pensiero che non scantona
dal suo manifestarsi, che si fa
atto di volontà. Ma ora nonostante il ridestarsi
dell’allodola, e del suo trillo,, intorno
sento un silenzio che inganna
anche la sua modulazione. Il verso
sussulta di una realtà inesistente e chiara
Al cuore, un po’ meno alla mente intemperante
che poi s’arrende al ritmo di una canzone
nuova che s’eleva al cielo come una marea
per forza d’attrazione, oppure a un anello
di costrizione alla caviglia (l’ombra imponente
di un serraglio) si lega, e al sentiero
nella terra sapida. Traccia un percorso ancora ignoto
dalla volta alla terrestre crosta, s’ingegna di rovesciare
così la direzione, e altro di sé non mostra che il moto
(tratta da “Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie”, bilingue, Ensemble edizioni, 2019)
32.
«Di naviganti ombre si muovono rapide
e indistinte dalla cabina di comando al ponte
di coperta, intrepide presenze persino sul palanco
danneggiato del pagliolo. È il legno sapiente
della stagione buona e del maltempo
proiettato nella carenza di sé
a un aspro scandaglio. Sta così ritorto
il cargo alla controra
con l’opera viva sommersa
in parte nel fondale prosciugato
dello specchio al molo, quando non s’avventura
con la mente al pelago cantando nei cigolii
Delle fiancata la riluttanza
a mostrarsi cedevole all’incanto la notte
delle più alte ondate. Sono in difetto, sembra
lo scafo ardire, quanti paventano che affondi
: ben potenti ho scavallato flutti
di mondi che si potessero solcare
nessuno avrebbe detto, il lato
aperto di uno spazio che ho sbrigliato
con una carezza sul dorso lanciato
del puledro. Mi sono perso sì, anche un poco
è cambiato del mio aspetto: ha inciso
il salso in profondità come fa la parola
Al cuore a lungo attesa quando non è detta
, e l’anima vorrebbe all’amo essere presa
, mi sono ritrovato poi nell’ospitale attracco
come nel perfetto e caldo sogno
del suo abbraccio. Nel turbinio di questo spettro
torno tra l’alto e il basso al fortunale, infilo
la cresta dei frangenti, sfioro l’increspatura
per non farmi male, da procellaria adusa al largo
mare ad ali spiegate riprendo il volo a raso
e non di un asilo cerco il luogo ameno, il valico
nel tempo col bruno della mia livrea, col bianco
delle vele ridesta il cielo alla memoria e piango»
(tratta da “Bosnia, appunti di viaggio e altre poesie”, bilingue, Ensemble edizioni, 2019)
———————–
(Inedite)
*
A me stesso – Non i gelsi, le magnolie
Quanto mi hai detto i muri dritti
contendono nella corte del palazzo
alle magnolie. Alti guardiani
della luce e ostinati antagonisti competono
in possanza coi verdi fusti, nell’esuberanza
inimitabile dei frutti e della scorza
, nel riflesso obliquo dell’ombra sui piani
verticali dei cantoni, stanno superbi e soli
nel trionfo delle pietre, i cauli
nell’embrione, e dei mattoni, nella misura
antica elargita dalle mani
di oscuri campioni dello sparviero
e del fretazzo. Un’altra elevazione
ha la magnolia nello spazio, e quanta
perseveranza nella partita iniqua
per piacere ancora a un alito di vita, e pura
Forza sacra di natura, che tende all’orizzonte
ceruleo i suoi copiosi rami. A osservare
me ne stavo le magnolie nella lotta
per la sopravvivenza: non è poi, mi dicevo
un’altra storia vivere in un patto
nella levità della tua stanza e nel contempo
a te tendere le braccia mie come se avesse il cielo
la tua bella faccia che tanto mi rischiara
coi suoi più dolci occhi quanto cari sono
del pensiero i tocchi in tua presenza. Non s’adombra
la magnolia che alimenta l’avvento
d’un commiato e più svetta nella sfida
con il fato, e io non m’allontano dall’energia
d’un vincolo umano che è potenza dell’unione
e che mi porta, gemma feconda e rigeneratrice
alle soglie alte di un amore, all’esistenza
(Maggio 2019)
*
A me stesso – C’era una volta a Urbino
Per un’alba inaccessibile dal Bastione
di San Polo, le mani nelle tasche
, i tuoi capelli, la voce sincopata
d’una radio contro tutti audace – si manifesta
per la pace? No, per la lotta… – Notti di neon
, di baci musicati sull’origine del fuoco
(più dentro era stato tutto un barricarsi
d’un manipolo di eroi nel Rettorato), di parole
sgolate, divelte come pietre, tra i lazzi
e i motti a crepapelle, e poi lanciate
come sanpietrini dal culmine
del Monte fino a Valbona, alla testa
del corteo che arriva
sotto i Torricini, e la salita
sulle scale della rampa elicoidale, l’uscita
sullo spiazzo del Teatro laddove è l’imponenza
antica del palazzo che s’erge nella fantasia
di merli e di pinnacoli nell’oggi costumato
(ma il rogo sì c’è stato, di corpi alla Fortezza
, e lo ricordi l’impiccato?), e poi sul Pincio
verso l’accesso sempre aperto alle Facoltà
di Magistero e di Filosofia, dare inizio
a un’altra storia dall’Ateneo alle strade
, seppure procedesse da un romantico idealismo
, i passi con Bo, Luzi, Volponi a capo chino
nel lungo porticato che mi diceva «ti parlerò, sì,
mentre tu scrivi d’una poesia ancora», lo sdegno
suscitare, una drastica cura si diceva
non le promesse, avanti un vortice d’idee
, l’azione concreta, avanti
con la messe, avanti avanti, e poi la vita, le corse
dentro il tempo all’oblio dei giorni schiuso
mentre stavano le case negli sbarrati scuri
e lungo una teoria di logge
d’ombre sghembe, hai sfilato sul selciato il passo
fermo davanti ai Celerini in assetto
antisommossa o in borghese mischiati
a quella ressa di urlanti traditori della massa
silenziosa a Roma, a Bologna, nella ducale
Urbino, sebbene attraverso l’Appennino
segnali di fumo giungessero dalle metropoli
in rivolta, si elaborava in tutt’autonomia
, che procedesse ancora da un romantico
candore era poi certo, coltivato da una stagione
di studi appassionata, d’ininterrotto umanesimo
innalzata – certi che non fosse un gioco da ragazzi
occupare la tua Sociologia e l’Aula VI^ – il lutto
per i compagni assassinati, per i perduti nella polvere
del male, l’impegno di molti
e per tanti, i diseredati, la controinformazione
, la proposta in un linguaggio speso che s’è detto
dopo poco e a buon ragione un residuato in sé
, un’anticaglia mesta davanti al ceppo
del camino nella casa di campagna
a Sant’Eufemia col fuoco che riverbera
la festa delle fiamme nei tuoi occhi, così vivemmo
intorno un buio pesto, infrante le vetrine, un incendio
d’auto in sosta, l’inganno, il sangue d’una iena
che s’era armata sui resti del cadavere coi denti
, aggrediti dalle bestie s’addomesticò la nostra voce
tra cuffie stereofoniche e microfoni impugnati
in un laboratorio innovativo, e poi la penna
sul registro di giornali e di riviste
in odio alla barbarie e alla violenza, l’energia
per noi era tradotta naturalmente in gesti
d’assoluta tenerezza, un grido
di bellezza lo chignon dei tuoi capelli neri sciolto
con un gesto delicato dalla testa, il passaggio
nella finestra stretta del quartierino all’Annunziata
, la tua palestra improvvisata in un garage
del Bivio Borzaga fino alla sosta con te, o cara
mia pulzella, da clandestino nella stanza spoglia
dei Collegi nella preparazione a un’esistenza
a noi annunciata, d’inusitata intensità
e come poi s’è rivelata più vitale
di qualsiasi inastata bandiera, nel cuore
che tu figgesti ancor più vera
(Agosto/Settembre 2019)
* Bastione di San Polo, Controradio (emittente libera che ho fondato insieme con un gruppo di amici urbinati e non e che ho poi presieduto), Rettorato, Monte, Valbona, Torricini, Teatro, Fortezza, Pincio, Facoltà di Magistero e di Filosofia, Sociologia, Aula VI^, Sant’Eufemia, Annunziata, Bivio Borzaga, Collegi, sono tutti luoghi di Urbino.