Dal 1987, le moto d’epoca si danno appuntamento a luglio per questa straordinaria corsa a tappe che attraversa i luoghi più belli d’Italia.
Ermanno Tarli con Leonardo Badioli
Il rumore, innanzitutto. Non quello rotondo dei motori sincronizzati di oggi, ma quello scandito, ritmico come di tamburi, delle monocilindriche, che fa un po’ prestante e un po’ contadino; e poi gli odori: quello dell’olio di ricino usato come fluidificante che avvolgeva le corse di una volta: tutte cose sconosciute ai bikeristi si oggi. Noi a Senigallia li abbiamo conosciuti da bambini, quando l’emozione ci spingeva il cuore in gola mentre scrutavamo tra le tavole delle transenne, a largo Boito, nelle giornate motoristiche d’agosto, per vedere Liberati, Masetti, Cavanagh e Duke.
La kermesse ha una storia: quando, nel primo dopoguerra, tantissime officine italiane – un unicum nel mondo – si erano messe a costruire motociclette, la corsa serviva per metterle in mostra. Motori piccoli ma anche grandi, tutti comunque con una propria storia. Mondial, Gilera, Guzzi, MV, Laverda, Capriolo, Norton, Alpino, Mival, Aermacchi, Benelli; e la Rumi (il Rumi, dicevamo noi) di Oscar Rumi, che era anche pittore, e quel suo rumore da brividi – l’unica cosa che non riuscivano a fare erano i raggi e i cerchi.
Se oggi si disputa ancora una gara che attraversa l’Italia per lungo, non meravigliatevi dunque di questa voglia struggente, romantica, invincibile di esserci alla partenza e di arrivare al traguardo, anche a dispetto del medico che lo sconsiglia. Una settimana di revival che qualcuno può intendere come il corrispettivo motociclistico delle Mille Miglia, col rischio però di sentirsi bacchettare: “Ma saranno loro il corrispettivo a quattro ruote della nostra motociclistica Milano-Taranto!”.
Tanto più in quanto passano gli anni che la gara si ripete, per 35 volte, da una domenica all’altra per l’intera settimana, questa corsa che sembra fatta apposta per le nostre teste grigie come per i fuori di testa di ogni parte del mondo, tedeschi, olandesi, belgi, spagnoli, inglesi, giapponesi, uniti tutti da quel rumore come palpiti di un vecchio cuore, e da quell’odore che per loro è ancora presente nella memoria. Una signora milanese di ottant’anni, interamente in tuta nera, mi ha confessato di avere acquistato lei stessa un sidecar da corsa per il figlio perché la portasse con sé alla Milano-Taranto.
Queste esperienze spiegano (anche se non giustificano!) la presenza nella corsa lineare di un buon numero di senigalliesi, molti di questi iscitti al club delle Lumache Rumorose: Attilio Ruggieri su Ducati 98, Massimiliano Bracci su Gilera Saturno, Piero Bracci su 175 Ducati, Guido Balducci su Bianchi 175 Tonale, bellissima moto; Silvano Bartozzi su Morini 175, veterano questo che ne ha fatte cinque e sei che non sono davvero poche se consideriamo la fatica, Ivaldo Pierini su Gilera 125 e, last but not least, Ermanno Tarli, cioè me, su MotoB Imperiale Special Sport 125. Poche donne di molto merito gareggiano anche loro in tuta nera, senza pubblicità ma con la pettorina numerata della quale i partecipanti sono così orgogliosi.
Perché questi accaniti garagisti, questi geni del patchwork meccanico che ti ricostruiscono filologicamente una moto o ne montano una d’invenzione con i pezzi di diverse altre, tutto l’anno s’ingegnano per essere pronti al grande appuntamento dell’estate. Quest’anno poi è un’edizione attesa dopo due anni di gara virtuale a causa del Covid.
Vita dura, comunque, che solo una passione estrema ti fa sopportare: questo vale sia per i piloti che per le moto. I più doviziosi, quelli che partono per vincere, si portano dietro un camion-scopa con tutti i possibili ricambi, ma a noi plebe, a noi che prima di tutto vogliamo partecipare, in caso di guasto tocca supplire come si può. Una volta si è visto uno usare il cono di un gelato per rimboccare l’olio. Si è visto un Guido Balducci restare prigioniero del castelletto delle valvole del Tonale: fermo sei ore alla partenza, un camion lo riporta a casa, poi tutta la notte lui lavora e due giorni dopo è a Perugia pronto per ripartire in direzione di Cassino.
Ma c’è solidarietà lungo la via. Soprattutto i meccanici: una volta uno ha aperto per me l’officina in giorno festivo e mi ha tornito una vite in giorno di chiusura in cambio di una birra. Insomma, un modo o nell’altro ce l’ho fatta a completare una Milano-Taranto: ce-l’ho-fatta! Alla mia età. Poi sono rimasto quindici giorni immobile. Ma ne è valsa la pena. Gli organizzatori si portano dietro anche un certo numero di assaggiatori che qualificano i luoghi di sosta. Insomma la corsa è questa, la vita è questa e, con tutta la dedizione necessaria, non ci va a male niente.