Pio II giunge ad Ancona per dare inizio alla Crociata contro il Turco
Sognava di unire la Cristianità
Era il modo che s’era scelto per morire
di Leonardo Badioli
Ecco: il terrapieno di detriti che ha formato la frana è il posto migliore per vedere Ancona, e l’ultimo che apre sul porto prima che la strada si interni tra le case e lo escluda alla vista. In questa prospettiva la città si dispone nella stessa posizione nella quale la ritrasse il Pinturicchio sul muro della Libreria Piccolomini, più di cinquecento anni fa. Soltanto la sigilla come un fissativo la striscia troppo bianca dei cantieri navali.
Il dipinto sembra opera di uno che conosce bene i luoghi: sul colle del Guasco un San Ciriaco reinventato in forme rinascimentali, e ai suoi piedi il porto con l’Arco di Traiano addossato di taglio alle mura trecentesche; sullo sfondo alcune navi alla rada aspettano, pronte a partire per la guerra al Turco.
In primo piano è papa Pio II portato sulla sedia gestatoria e attorno a lui una folla variopinta che lo stringe. Sulle loro teste, però, e sopra tutto, domina la scena un altissimo cipresso conficcato lì come un vessillo lugubre e fatale; e sulla destra due uccelli scuri che potrebbero essere uno sparviero che ghermisce un corvo: allegoria già presente nei Commentarii delle cose notevoli accadute sotto il suo pontificato. Privato di quell’asse, il dipinto apparirebbe vuoto e banale; ma è appunto quello che sorregge l’intera costruzione e ne raccoglie il senso.
Non che il papa sia poi così suggestionato dalle premonizioni; piuttosto le mette avanti in abbondanza per coprire di ineluttabilità quei passi che in realtà ha deciso lui stesso di compiere con tenacia altrettanto fatale. Del resto, nessuno ignorava la sua qualità di uomo che sa quando è il momento di tirarsi indietro e quando invece conviene fare un passo avanti e conquistare il soglio.
“Dimenticate Enea e accogliete Pio”, aveva chiesto alla benevolenza dei presenti appena eletto papa: un modo davvero elegante per annunciare un profondo cambiamento, ma anche per assicurare che in fin dei conti lui era sempre lui, Enea Silvio fatto “il pio Enea”. E veramente la sua arte era quella di far vivere insieme quello che era divergente o del tutto inconciliabile. Perfino il Cristianesimo e il Sultano, fin dove possibile.
A partire dal giorno dell’incoronazione, che fu anche quello della sua conversione spirituale, con estrema decisione aveva intrapreso un percorso estremo di morte e glorificazione: la Crociata contro il Turco. Convocato un gran congresso a Mantova, con grande, obbligatorio concorso di principi e signorotti, vi aveva brillato per eloquenza, se non proprio per concretezza: promesse tante, impegni pochi, realizzazioni quasi niente. Era venuta perfino dall’oriente una delegazione di figuri dai vestiti sgargianti e dal formidabile appetito: ricevuti degnamente, promettevano duecentomila uomini e le armi di un certo Pancrazio, reputato signore nelle armi; per un momento lui aveva creduto alle loro promesse, ma poi, con eleganza, li aveva dirottati prima in Francia, poi a Venezia. Alla lunga, l’ambasceria s’era mostrata per quello che era: una banda di profittatori.
Di quella gentaglia aveva fatto benissimo a non fidarsi; ma perché non avrebbe dovuto fidarsi del duca di Filippo il Buono, figlio di Giovanni Senza Paura e padre di Carlo il Temerario? Il duca di Borgogna prometteva di venire in forze, con tutte le sue forze. Invece a un certo punto anche quella speranza era caduta: no, non verrà nessun Filippo, nessun Duca di Borgogna.
Soltanto i Veneziani, senza entusiasmo ma necessariamente attenti, avevano promesso l’arrivo di galere per trasportare i crociati sul luogo della battaglia.
Adesso finalmente era il momento di andare. I bagni di Petriolo lo avevano riconsegnato per nulla sollevato dai tormenti, e la corte romana tutta intera, medici per primi, scuoteva la testa: nessun papa era andato di persona alla crociata, tantomeno poteva farlo uno malmesso come lui.
Il Pio Enea ne ricavava dunque che doveva affrettarsi: il tempo fugge. Per questo era sceso una mattina di luglio del 1464 alla Basilica dei Santi Apostoli – di solito faceva così quando lasciava Roma – e, invocato con preghiere il buon successo dell’impresa, era salito sopra una barchetta che gli avrebbe risparmiato le fatiche di un viaggio via terra, avendo per compagni solo cinque prelati tra quelli più vicini per affetto e mansioni.
Così, senza clamori, in un clima da ultimi giorni, Enea Silvio si strappava a Roma per entrare nell’età del suo disfacimento. I romani, poi, lo sapevano tutti che quella sua crociata si sarebbe risolta in un disastro, e che prendervi parte era il modo che s’era scelto per morire. Per questo nessuno s’era mosso di casa per andarlo a salutare, quasi che volessero proteggersi con l’indifferenza da quella gran tristezza.
Lui stesso usava spargere premonizioni di futura morte; già quattro anni prima aveva scritto, chissà, per suo stesso ammonimento, che sarebbe avvenuta il sesto anno del suo pontificato; adesso che l’anno era arrivato, nel passare con la barca sotto il Ponte Milvio, salutava l’urbe con un verso latino che in italiano suona:
«Addio Roma. Tu vivo mai più mi rivedrai».
Navigazione lenta e tediosa a risalire il Tevere, cene frugali in barca, soste brevi e dolori incessanti. I cronachisti ne tengono amorosa cura e li elencano senza trascurare niente, come misura della sua moralità. Non solo lo tormenta la podagra: anche le mani ne erano prese (lui le chiamava strologhe perché si gonfiavano in prossimità degli equinozi); e poi la tosse continua, e quel calcolo malefico che ut menstruo lo fa sanguinare. La vita del grande umanista è una scia di malanni sopportati e di sciagure scampate per un pelo: un capitombolo nei primi anni, l’incornata di un bue da ragazzino, una slavina in Svizzera schivata per miracolo, il naufragio di una nave sulla quale per un semplice disguido lui non è salito, la peste contratta a Costanza e debellata, un attentato alla vita sotto forma di festeggiamento, un complotto che viene scoperto…
Eppure non aveva trascurato niente di quello che pensava necessario per l’impresa. Era uomo tenace nelle sue aspirazioni. Mingherlino di statura, rotondetto nel tempo, aveva negli occhi un’espressione gentile, che prontamente diventava terribile quando s’arrabbiava; capelli pochi e sbiancati anzitempo, l’incarnato di un pallore floscio e l’andatura affaticata dalla gotta; convinto però di grandezza: fin dal primo momento del suo pontificato si volta alla Crociata contro il Turco. In questo modo si sognava di unire la Cristianità.
Idea in qualche modo necessaria, se consideriamo l’enorme impressione che avevano suscitato in tutta la Cristianità i Turchi diventati padroni di Costantinopoli, cinque anni prima, e che, occupata la Bosnia, arrivavano adesso a minacciare Ragusa e il Mare Adriatico.
Scuote la cristianità, organizza un congresso, scuce promesse ai principi riluttanti, eroga galere a genovesi e Veneziani, praticamente obbliga ogni cardinale ad armare una nave.
Con la sua partenza, Pio II si appresta a scavalcare tre confini: quello della città di Roma, che un papa non può lasciare per l’ultima volta se non per morire; quello che, finita la terra, dovrebbe condurlo in partes infidelium; quello che lo porta oltre il limite di vita corporale e della fama terrena che dopo morte diventerà beatitudine celeste e gloria imperitura. Tutti e tre hanno in comune il morire.
Da un mese si trova in Ancona nell’attesa che la flotta veneziana arrivi per portare lui e l’esercito crociato sull’altra sponda. Finalmente il 14 agosto, vigilia della festa della Madonna Assunta in cielo, arrivano le navi. Le vede dalla finestra della sua residenza, che si trova a fianco di San Ciricaco, proprio sopra il mare.
E muore.