Per dire NO alla violenza sulle donne
La casa per molte donne non è un luogo sicuro e la famiglia è il peggiore degli inferni. A loro sarà suonato minaccioso e colpevolmente ingenuo quell’ossessivo “stiamo a casa!” ripetuto in coro negli ultimi due mesi da chiunque, fossero governanti, artisti, sportivi, giornalisti, intellettuali, hashtag sui social network e grida giudicanti dai balconi dei vicini appena ci si azzardava a varcare la soglia senza un cane. “Siamo tutti esposti, tutti nella stessa barca”, ci siamo ripetuti prima che qualcuno ci facesse intelligentemente notare che siamo forse nella stessa tempesta, ma non certo nella stessa barca. Eppure tutti abbiamo fatto finta di credere irrilevante che la tanto ribadita casa fosse grande o piccola, di proprietà o in affitto, condivisa o meno e con chi, in centro o in periferia, decente o fatiscente.
Nei discorsi pubblici “la casa” compariva più che altro come uno stato dell’anima, un oggetto narrativo uguale per tutti, il luogo sicuro per eccellenza. Dapprima rifugio dal contagio degli untori estranei, man mano che le settimane di confino si moltiplicavano ha finito per essere raccontata come una sorta di nido di scoiattolo dentro al quale stipare affetti, provviste e speranze di futura normalità, anche non in quest’ordine. È da lì che per molte settimane abbiamo celebrato il rito di ascolto della conferenza stampa della protezione civile, i cui dati ogni sera hanno diviso il paese in tre grandi colonne più una, invisibile: i contagiati, i guariti, i morti e poi noi, innominati e quindi salvi perché rimasti, appunto, al sicuro in casa.
Oggi i centri antiviolenza ci dicono quello che, a volerlo vedere, era ovvio da subito: la casa è il luogo dove tutto può succedere e dove a molte donne e ai loro figli capita effettivamente di tutto. Convivere a contatto con l’uomo che picchia e intimidisce te e i tuoi bambini è già difficile in una quotidianità dove il lavoro porta uno o entrambi i partner fuori di casa per molte ore, ma farlo ventiquattr’ore su ventiquattro per mesi in una condizione di forzatura diventa un inferno da cui molte, ancora troppe donne, non riescono ancora a scappare via. Le ragioni non sono misteriosamente psicologiche, come a molti piace credere. Non esiste una sindrome di Stoccolma che colpisce le donne e le fa restare volontariamente con un uomo che le massacra nel corpo e le annichilisce nell’anima. Tante di loro chiederebbero aiuto, se sapessero come e dove trovarlo, e tutte lascerebbero la casa in cui non sono al sicuro, se solo avessero un altro tetto e la certezza di poter portare con sé i figli.
La ragione per cui molte donne non denunciano i compagni violenti è la paura di non essere credute e la fragilità economica in cui spesso sono relegate dalla dipendenza relazionale, al di fuori della quale è stato fatto loro credere di non potercela fare, tantomeno di poter garantire sicurezza ai figli minori. È qui che scatta, o dovrebbe scattare, il ruolo dello Stato. Un paese che prende sul serio la condizione delle donne e dei bambini che vivono dentro a relazioni abusanti è un paese che finanzia adeguatamente i centri antiviolenza e i loro rifugi protetti, ma questo in Italia – come denuncia l’associazione D.i.Re Donne in Rete contro la violenza che riunisce ottanta centri antiviolenza gestiti da donne specializzate – è ancora un obiettivo distante. Gli attuali meccanismi statali, regionali e comunali di finanziamento non sono infatti né chiari ed efficaci né omogenei, con una modalità di copertura a macchia di leopardo e un dislivello enorme di risposta, sia per quanto riguarda la distribuzione dei servizi che per la qualità dell’offerta.
Dove non ci sono abbastanza soldi è impossibile dire a una donna: “vieni via di casa, sappiamo dove metterti al sicuro coi tuoi figli per i prossimi sei mesi”, e così troppe ancora donne muoiono e sono morte perché le istituzioni non hanno ritenuto prioritario proteggerle finanziando le reti specializzate. Anche dove esistono i rifugi, spesso però mancano i fondi per i progetti di sostegno all’autonomia delle sopravvissute, la loro personalissima fase 2, quella che consentirebbe a ognuna di loro di diventare davvero padrona della propria vita. Occorrono investimenti sulla formazione e sull’avviamento al lavoro di donne che spesso non hanno mai svolto un mestiere, forzate alla dipendenza economica da un partner violento che sapeva benissimo che l’autosufficienza avrebbe aperto la strada alla libertà della compagna.
In questi anni il dibattito politico si è focalizzato soprattutto sulla punizione dell’uomo violento, arrivando a mettere a punto leggi che prevedessero appositi reati e pene, forse nella speranza che fungessero da deterrente alle violenze dei carnefici. Come avevano avvisato proprio le reti dei centri antiviolenza, quella solo giudiziaria non era la direzione giusta: a distanza di un anno dall’approvazione del cosiddetto Codice Rosso, i dati mostrano che su tutto il territorio sono aumentati gli arresti, ma anche le violenze e i femminicidi, in alcune zone purtroppo in modo molto rilevante.
Le istituzioni fanno ancora fatica a capire che la cura per la violenza di genere non comincia davanti al corpo morto di una donna o al suo ennesimo occhio nero. Comincia dalle basi culturali di un paese profondamente patriarcale, dove sono considerate normali cose che in altri stati sono già illegali, come il dislivello economico tra uomini e donne che fanno lo stesso mestiere o la vergognosa cancellazione della competenza femminile da ogni ambito professionale e sociale, che siano convegni di settore, consigli di amministrazione aziendali, segreterie di partito o task force governative per l’emergenza covid.
La battaglia contro i femminicidi e le violenze comincia dalla lotta agli stereotipi di genere, che sin dalla prima infanzia educano i bambini a pensare che nella vita sono chiamati a darsi un perché e alle bambine basti invece un per-chi, convincendole che pensare alla propria autonomia sia un vivere a metà contrario alla natura femminile. Il virus, al di là della catastrofe, ha offerto al governo italiano un’occasione clamorosa per ridurre di colpo il dislivello di potere tra i generi che sta alla base della violenza di relazione e la dottoressa Ilaria Capua ha il merito di averlo reso esplicito da subito. Per qualche misterioso motivo i dati INAIL ci dicono che, pur avendo contagiato molti più uomini che donne in età lavorativa, l’organismo contro il quale tutti combattiamo ha infatti trovato nei corpi femminili una resistenza fortissima, che ha permesso a tre quarti delle contagiate di sopravvivere laddove i tre quarti dei pazienti di sesso maschile perdevano la vita. Il buon senso suggerirebbe quello che è stato automatico fare per gli anziani rispetto ai giovani: se le donne, pur ammalandosi, muoiono meno, teniamo gli uomini in casa in smart working e favoriamo l’inserimento lavorativo della categoria a minor rischio, almeno finché non avremmo il vaccino. Sembrerebbe logico, eppure, quando il 4 maggio si è trattato di far tornare al lavoro quattro milioni e mezzo di persone, quasi l’80% dei rientri sul posto di lavoro erano di uomini.
Quell’ossessionante “state a casa” che tutti ancora ripetono assume dunque il significato del ritorno all’esclusione delle donne dalla vita economica del paese e, di conseguenza, anche dalla loro libertà di scegliere di uscire da situazioni di violenza e dipendenza dal loro carnefice. La verità che a molti non piace vedere è che persino lo Stato preferisce tenere le donne tra le mura domestiche a dispetto delle violenze, piuttosto che rimandarle per prime al lavoro approfittando della loro bassa mortalità al virus. E a quel punto chi convincerà gli uomini violenti che qualcuno che fuori casa non vale nulla, a casa dovrebbe invece valere qualcosa?
(L’articolo l’ha scritto Michela Murgia il 10 maggio su “La Stampa” e l’ha postato nel suo profilo facebook. Emblematico in questa giornata simbolo. 91 donne vittime di femminicidio nel 2020. Uccisa 1 donna ogni 3 giorni. Durante il lockdown i casi sono triplicati)
Anche nel nostro territorio c’è chi si batte per aprire centri antiviolenza, ma ancora l’obbiettivo non è raggiunto. Si raggiungerà mai? In questi giorni è uscito un Comunicato di Diritti al Futuro: (…)È tempo di strutturare in modo organico il protocollo di intervento istituendo, finalmente, una Casa delle Donne, che rappresenti un rifugio sicuro per quelle donne che non possono più restare nella loro abitazione né permettere che i figli siano testimoni di episodi di violenza (…)