“Ripe 1943-1945. La liberazione”
di Giuseppe Santoni
Quando tutti pensavano che la guerra fosse finita, la guerra arrivò sotto casa. Fino all’8 settembre 1943, per chi era rimasto, la guerra era stata soltanto un bollettino captato alla radio, con l’orecchio attaccato (perché “il nemico ascolta”, ma anche per non consumare) e non ancora un fatto veramente concreto, percepito, spartito tra tutti. Il Duce aveva fatto appello a “uomini e donne” di un’Italia “fiera e compatta come non mai”, e lanciato “parole d’ordine impegnative per tutti”; “l’Italia fascista e proletaria” si era pur messa a coltivare gli orticelli di guerra, a tagliare le cancellate per recuperare ferro da farne bombe e a consegnare le fedi nuziali per sostenere economicamente lo sforzo bellico, ma mai fino a quel momento la guerra era stata qualcosa di più di un’eco di vicende lontane. Poi il passaggio del fronte coinvolse tutti in modo talmente diretto e profondo che, trascorso quello, ognuno ebbe qualcosa da raccontare.
È proprio questa coralità del racconto la prima nota saliente dalla lettura del “contibuto storico sull’ultimo periodo della seconda guerra mondiale a Ripe e Castel Colonna” che Giuseppe Santoni ha presentato al pubblico qualche settimana fa. Il libro infatti prende origine da una dispensa scolastica originale uscita dalla Scuola Media Statale di Ripe, dove lo stesso Santoni era insegnante, e raccoglie un numero piuttosto alto di testimonianze, a partire da quella attivamente intenzionata di Adelino Lavatori; il fatto stesso che il campo narrativo si restringa a due piccoli centri abitati sottolinea la proprietà del racconto: sono storie che appartengono al luogo, sono storie che appartengono a tutti.
L’autore e curatore le ordina e le svolge in modo da non separare mai il testo dei singoli episodi dal riferimento degli avvenimenti più generali. Ne scaturisce una sequenza limpida e persuasiva: passo passo seguiamo la dissoluzione dell’esercito italiano dopo l’armistizio, lo smarrimento tra la Repubblica Sociale e l’avanzata alleata, il costituirsi e il raccordarsi di brigate partigiane, gli agguati e il sacrificio di molte persone, ogni cosa attraverso il racconto di chi ha saputo o vi ha preso parte, azioni ed episodi non disgiunti a tratti da una vena umoristica e vernacolare.
E poi i bombardamenti, prima quelli degli Alleati, poi quelli dei Tedeschi, poi ancora quelli degli Alleati. In mezzo la battaglia che fu principalmente combattuta lungo una linea che passa tra Castelcolonna e Monterado, attorno a Francavilla. Allora sì che la guerra esplose in una detonazione fisica e morale che coinvolse per intero un popolo. “Sembrò che le campagne e le colline prendessero fuoco per i ripetuti bagliori delle cannonate, tantissime, e ben presto tutto il cielo fu offuscato dalla polvere e dal fumo degli spari. Gli Alleati da soli spararono circa tremila colpi di cannone, qualcuno di meno ne spararono i Tedeschi, ma esplodevano anche le bombe a mano e le granate, crepitavano le mitraglie e le fucilerie, era un vero putiferio. Quando, verso mezzogiorno, le cannonate si diradarono, sembrava di essere in una nebbiosa giornata di novembre, anziché in un radioso giorno di agosto”.
Allora i giorni trascorsi nel rifugio, le prime timide uscite tra rottami e cariche inesplose, il recupero delle cose perdute o trafugate, la fame, il timore e il commercio dei residuati bellici, e fervidi e speranzosi, i primi passi della democrazia, diventano memoria. Sta proprio in questo pulviuscolo narrativo in cui tanti furono attori (ricordo, a tale proposito, un bel libro curato da Alfonso Gatto, intitolato, appunto, “Il coro della guerra”) il senso più nitido della rievocazione: quando la storia non vola sopra le cose ma le attraversa a piedi, fermandosi a parlare, raccogliendo fotografie e documenti che prendono significanza se affiancati ad altri. In questo modo, a più di settant’anni dai fatti riferiti, il ricordo si addentra nel vissuto non solo di chi c’era, ma anche di ogni singola persona a venire, ben oltre “il sonnifero cattivo dell’indifferenza”. Come siamo stati, dove siamo passati e perché oggi ci troviamo qui. A propria volta, questo libretto si inserisce in una collana di altre congeneri pubblicazioni come una tessera in un mosaico che, quanto più minuta, tanto più collabora alla lettura del disegno complessivo.
Leonardo Badioli
Raramente un ricercatore storico può dirsi più soddisfatto di quando un lettore critico non solo sa apprezzare la qualità di una relazione storica, ma sa addentrarsi anche nel perché quel testo sia stato redatto in quel determinato modo e non in un’altra forma. Vale a dire quando il critico sa entrare nelle motivazioni e nelle intenzioni dell’autore.
Leonardo Badioli, in questo bel saggio, ha saputo fare proprio questo: cogliere la coralità del ricordo, in cui ognuno ha qualcosa del vissuto personale da narrare, ma chi orchestra la raccolta dei ricordi non deve però disperdersi nei singoli episodi e nei mille particolari delle memorie personali, per non perdere di vista il quadro storico più generale di riferimento. Solo così chi legge può inquadrare i singoli episodi nella storia più ampia e travagliata che in quel periodo divise e sconvolse l’Italia. Il ricordo personale diviene condiviso e la memoria collettiva serve da collante per unificare la nazione e per orientarla verso la svolta democratica del Paese.
Grazie, Leonardo, per questa bella e approfondita recensione.
Giuseppe Santoni
Il mio povero papà fece la seconda guerra mondiale. Fin da piccola me ne parlava spesso e io lo ascoltavo come se fosse una cosa inverosimile. E’ tornato dalla guerra dopo sette anni perchè fu fatto prigioniero.Poverino quanta sofferenza!
Quanti ritorni, Francesca, dalla guerra, tanti inverosimili! Primo Levi scrisse il suo, ma ognuno insieme agli altri arriverebbe a formarne un’antologia. Perché non provi tu a raccontarci il ritorno di tuo padre? Con o senza qualità letterarie non importa. Raccontare è tutto. Una cosa non raccontata (scriveva Saviano) è come se non sia mai successa.