da Ovidio, le Metamorfosi, libro II
Regia solis erat sublimibus alta columnis…
La reggia del sole si ergeva su alte colonne
splendida d’oro e fiammante di rossi granati;
candido avorio copriva il sommo fastigio
e le porte raggiavano luce di vivido argento.
Il lavoro era ancora più bello: il cesello del fabbro
divino vi aveva sbalzato le acque che cingono
intorno le terre, e il cielo che sopra le chiude.
I cerulei dei sono immersi in quel mare, e Tritone
dà fiato alla grande conchiglia cavandone suoni;
compare il mutevole Proteo; Egeone che frusta
con braccia robuste le schiene di immani balene;
e Dori e le figlie: alcune si tuffano e nuotano;
altre si asciugano i verdi capelli su un ruvido
scoglio, altre ancora si fanno portare a cavallo
dai pesci; ciascuna è ritratta con suoi lineamenti
distinti, ma tutte somigliano, essendo sorelle.
Al di sopra risplende l’immagine chiara del cielo,
e metà dei segni stellari è su ogni battente.
Appena Fetonte vi giunse per arduo sentiero
entrò nella casa del padre, di cui dubitava;
subito spinse i suoi passi al cospetto paterno,
ma stette distante, perché non reggeva la luce
man mano che s’avvicinava. Coperto di un velo
purpureo, il Sole sedeva su un trono smagliante
di vivi smeraldi; a destra e a sinistra i Giorni,
i Mesi, gli Anni, i Secoli, e a uguale distanza
l’una dall’altra, le Ore; e la Primavera
novella, coronata di fiori; l’Estate, nuda,
con serti di spighe; l’Autunno, imbrattato di uve
pigiate e l’Inverno dagli ispidi, bianchi capelli.
Il Sole, quegli occhi che vedono tutto, lo vide
là in mezzo, il ragazzo, spaurito da quella visione
mai vista, e gli disse: «Per quale ragione, Fetonte,
figlio che un padre non può disconoscere, vieni
quassù fino a questa fortezza, perché questo viaggio?».
« O luce comune del grande universo, rispose
il ragazzo, « se tu mi concedi il tuo nome e Climene,
mia madre, non cela con false apparenze di avermi
da te generato, ti chiedo una prova per cui sia
creduto che sono davvero tuo figlio, che scacci
da me questa grave incertezza una volta per tutte”.
Disse così, e il genitore depose il diadema
di raggi lucenti che cerchiano il capo, e gli ingiunse
di farsi più avanti. Abbracciandolo disse: «Non meriti
d’esser negato, e Climene non mente affermando
che sono tuo padre. Se cerchi conferma, puoi chiedermi
quello che vuoi e l’avrai; te lo giuro, e mi sia
testimone la nera palude che gli occhi non vedono,
quella su cui sono soliti far giuramento
gli dei». Non aveva finito di dire che il giovane
chiese il permesso di reggere il carro paterno
e il diritto di avere una volta gli alati cavalli.
Il padre si pente di avere giurato, e scuote
più volte la testa splendente: «Si fa temeraria
la mia volontà se asseconda la tua. Potessimo
almeno mancare alle nostre promesse! Confesso
che questo soltanto è il regalo che ti negherei,
figlio mio. Mi è permesso però dissuaderti, o almeno
tentare, perché ciò che chiedi è rischioso. Mi chiedi
di farti un regalo che non si conviene alle esili
forze degli anni infantili: sei solo un ragazzo;
sei nato mortale e vorresti una cosa immortale.
Non sai, ma domandi più ancora di quanto è concesso
agli dei, perché, dicano quello che vogliono, dio
o mortale, nessuno saprebbe guidare quel carro
oltre me. Ma ti basti che il re dell’Olimpo, che scaglia
con mano spietata saette tremende, nemmeno
il Signore del Cielo potrà mai guidare quel carro:
eppure conosci qualcuno più grande di lui?
Il tracciato s’inerpica arduo, di prima mattina,
e i cavalli, appena svegliati, faticano; poi,
a metà del percorso, è altissimo cielo e da lì
tremo anch’io nel guardare i mari e le terre laggiù,
resto anch’io sbigottito e il cuore mi trema dal grande
spavento. Alla sera c’è il tratto in discesa: richiede
un attento controllo. Anche Teti ogni volta ha paura
che il carro precipiti in mare. A questo si aggiunge
che il cielo è travolto da un moto incessante, da un gorgo
che volge il percorso degli astri in rapide orbite;
io ci do contro, e quel turbine non mi trascina,
ma avanzo nel verso contrario al moto del cielo.
Immagina ora che ti dia quel carro: che cosa
farai? Riuscirai a forzare il ruotare dei poli
in modo che l’asse terrestre non ti porti via?
Pensi forse che in cielo ci siano boschi e città,
di trovarvi tempietti ricolmi di doni divini?
Tra immagini infide di mostri sarà il tuo cammino.
Ammettiamo che riesca a tenere la rotta, che tu
non ti faccia sviare da nessun errore: andrai
tra le corna che il Toro ti oppone, per l’arco proteso
del Sagittario; sfiderai le fauci del fiero
Leone, le larghe tenaglie ricurve, crudeli
dello Scorpione e le chele che il Cancro rivolge
sull’altro versante. Non credere poi che sia facile
reggere i quattro animosi destrieri: quel fuoco
che li agita dentro lo eruttano bocca e narici.
Sopportano a stento anche me, quando il ruvido istinto
s’infiamma e rifiutano i colli le briglie. E tu,
figlio mio, finché ancora sei in tempo, rinuncia
a questo capriccio, non farmi pentire di un dono
funesto. Mi chiedi una prova sicura del fatto
che sia io tuo padre? Ma questo tremore che sento
non è già una prova? Non è una conferma quest’ansia
che ormai mi tormenta? Su, guardami in viso. Potessi
vedermi nel cuore l’angoscia che adesso lo stringe!
Ma guardati intorno: qualunque ricchezza che il mondo
intero possiede, quei beni che hanno in gran numero
il cielo, il mare, la terra, li avrai, se li vuoi.
Solo questo regalo scongiuro, il cui vero nome
è sciagura, non vanto. Tu vuoi per regalo un castigo.
Perché attorno al collo mi getti le tenere braccia?
Ogni cosa che vuoi ti verrà accordata, vedrai:
sullo Stige infernale ho giurato, ma tu nel decidere
metti un po’ più di saggezza». Concluse così.
Ma il ragazzo nemmeno sentiva, e la voglia di avere
quel carro premeva, bruciava. Finché fu possibile,
il padre indugiò, prese tempo; condusse poi il giovane
al carro maestoso, che Efesto gli aveva donato.
D’oro era l’asse, d’oro anche il timone, e le ruote
avevano cerchi dorati; i raggi d’argento;
disposti sul giogo del carro emanavano luce
riflessa dal Sole i bei crisoliti e le gemme.
E mentre l’ardito Fetonte ammirava quell’opera
ecco, dal nitido cielo d’oriente, la vigile Aurora
spalanca le porte e gli atrii ricolmi di rose;
le stelle, che aduna Lucifero in schiere, svaniscono
e ultimo lascia lui stesso il suo posto nel cielo.
Appena lo vide calare, e il mondo arrossare,
e quasi svanire i corni dell’ultima luna,
il Sole alle Ore ordinò di attaccare i cavalli.
Svelte le dee obbedirono; spinsero fuori
dalle alte stalle i destrieri e gli misero il morso;
i cavalli, già sazi di ambrosia, sputavano fiamme.
Allora il padre spalmò sul viso del figlio
un magico unguento, e lo rese insensibile al fuoco;
gli pose in mezzo ai capelli il diadema raggiante,
poi, sospirando, gli diede gli estremi consigli:
il cuore era inquieto e già presagiva sciagura.
«Se puoi almeno obbedire ai consigli paterni
usa poco la frusta, ragazzo; usa invece le briglie:
scattano già per istinto i cavalli; il difficile
sta nel frenarli. Non prendere gusto a imbucare
le cinque corsie più dirette; c’è un ampio sentiero
che taglia in obliquo la triplice zona con larga
parabola; evita il polo australe e l’Orsa
congiunta coi venti di Bora. Qui devi passare,
vedrai chiaramente le tracce lasciate dai cerchi.
Fa’ in modo che il cielo e la terra ricevano il giusto
calore: non scendere troppo, né troppo impennare
in salita. Se vai troppo in alto potresti bruciare
il fondale del cielo; se vai troppo in basso potresti
bruciare la terra. Tu tienti nel mezzo e vedrai
che andrà tutto bene. Fa’ poi che le ruote non pieghino
a destra in eccesso il tuo corso, dov’è il sinuoso
Serpente, o a sinistra nel gruppo delle stelle australi
dell’Ara; la via tra le due devi scegliere; il resto
lo affido alla buona Fortuna, che spero sia fausta
e propizia più ancora di quanto sei tu con te stesso.
Ma mentre ti parlo la notte ha toccato la meta
che è posta sul lido di Esperia: non è più concesso
indugiare. Ci chiamano, e Aurora, fugate le tenebre,
splende. Afferra le redini, oppure, se il cuore
ti fa ravvedere, accetta un consiglio piuttosto
che un carro da me… Ancora sei in tempo, ancora
non monti quel carro che tanto, purtroppo, inesperto
desideri. Resta al sicuro a guardare e lascia
che pensi tuo padre a dar luce alla terra…
… Lui occupa il carro volante col giovane corpo,
s’installa, è felice di stringere in mano le briglie
e ringrazia suo padre al quale ha strappato quel dono.
Frattanto i cavalli del Sole, Piroo, Eoo,
Eto, Flegonte, con alti nitriti arroventano
l’aria; gli zoccoli battono sulle transenne.
E dopo che Teti, ignara di ciò che aspettava
il nipote, le ebbe abbattute e dischiuse le ampie
distese del cielo, l’alata quadriglia per via
s’avventò scalpitando nel vuoto, fendendo le nubi
che a loro correvano intorno, e aleggiando per l’aria
passarono gli Euri, che spirano proprio di là.
Ma il peso era lieve e non l’avvertivano affatto
i cavalli del Sole, e il timone mancava del solito
piglio; e, come le concave navi private
del carico giusto beccheggiano, sbandano, vanno
in deriva, così senza il peso consueto il carro
veniva sbalzato, squassato come fosse vuoto.
Appena si accorsero, i quattro destrieri sfrenarono
e il vecchio cammino lasciarono, e l’ordine usato.
Fetonte impaurisce; non sa dove deve piegare
le briglie che gli hanno affidato, né quale è la via,
né saprebbe condurvi i cavalli se mai la trovasse.
Allora le gelide stelle dell’Orsa a quei raggi
scaldarono – cosa che prima di allora mai era
accaduta – e provarono a immergersi invano in quel mare
che a loro è vietato; il Serpente, situato nei pressi
del gelido polo, era pigro dal freddo e a nessuno
metteva paura, ma adesso, scaldato, s’eresse
con nuovo, feroce rigoglio. E anche tu sei fuggito
sconvolto, Boote, pur lento e attardato dal carro.
Guardando dall’altro del cielo le terre lontane
profilarsi appena, lo sventurato Fetonte
sbiancò e le ginocchia tremarono d’un improvviso
spavento: calarono le ombre sugli occhi per quanto
bagliore era in cielo. Ora meglio sarebbe per lui
non aver mai toccato i paterni cavalli, si pente
di avere saputo che è il padre, di avere prevalso
pregando; ora preferirebbe essere detto di Merope
figlio, perché è trascinato così come un legno
è sospinto dal vento di Bora, e il suo timoniere
ha lasciato la guida, ormai vinto, e la affida agli dei
e ai voti. Che cosa può fare? Ha lasciato alle spalle
un gran tratto di cielo e ne ha ancora di più avanti agli occhi.
Ora spinge lo sguardo a occidente, ora torna a guardare
l’oriente; ambedue mentalmente misura, ma il fato
non vuole che possa raggiungerli. È sbalordito,
indeciso, non molla le briglie e non può trattenerle;
nemmeno conosce i cavalli per nome. Assiste
inquieto allo sparso apparire di vaste figure
di bestie mostruose qua e là per il cielo. C’è un punto
in cui lo Scorpione inarca le chele e protende
con coda e tenaglie le membra da entrambe le parti
per doppia estensione di cielo. Il ragazzo fu colto
da freddo terrore al vederlo, stillante di nero veleno,
che col pungiglione ricurvo affondava a ferire;
la mente si chiuse, le briglie di mano gli caddero
e, appena i cavalli avvertirono inerti sul dorso
le redini, senza più freni spaziarono in aria,
invasero ignote regioni, proruppero dove
la foga li spinse; ormai senza comandi, toccarono
il punto più alto del cielo e le stelle che lì
s’incastonano. Poi trascinarono il carro per luoghi
remoti, ora su verso l’alto, ora giù a precipizio,
in abissi profondi sfiorando ogni volta la terra.
La Luna, al vedere i cavalli solari passare
più in basso dei suoi, stralunò; le nubi alla vampa
si sfecero; il fuoco avvolse nei punti più esposti
la terra, che si sgretolò, si seccò fino all’ultima
goccia. I prati ingiallirono, alberi e foglie
bruciarono, i campi si offrirono al fuoco per farsi
incendiare. E questo era il meno. Le grandi città
rovinarono insieme alle mura e gli incendi mutarono
in cenere intere regioni coi loro abitanti.
Le selve montane avvamparono, arsero l’Atos,
il Tauro, il Cilice, il Tmolo, l’Oeta e l’Ida
che già ridondava di fonti, e il monte Elicona
sacrato alle Muse, e l’Emo, dimora del musico
Orfeo. Raddoppiò le sue fiamme al di là di ogni limite
L’Etna, le due sommità del Parnaso bruciarono
e l’Erice, e il Cinto, e l’Otri; soltanto quel giorno
si sciolsero i ghiacci del Rodope ; arsero ancora
il Mimante, il Dindimo, il Micale ed il Citerone
di Dioniso. I geli non diedero più refrigerio
alla nordica Scizia, bruciarono il Caucaso e l’Ossa
il Pindo e l’Olimpo, che di essi è il più grande, e le Alpi
che scalano il cielo; bruciò il nuvoloso Appennino.
Allora Fetonte davvero si volge a guardare
la terra che è tutta un incendio, non regge al calore,
respira zaffate roventi che sembrano uscire
dal fondo di una fornace e sente che il carro
si fa incandescente, non può sopportare le ceneri
e le scintille che sprizzano; un fumo bruciante
lo avvolge. Ormai non sa più dove andare né dove
si trovi, è in completa balìa degli alati cavalli.
È così che divennero neri gli Etiopi, dicono,
a causa del sangue che il grande calore chiamò
in superficie; è così che la Libia non ebbe più acqua
e rimase un deserto assetato. Le ninfe, sciolti
i capelli, compiansero i laghi e le fonti perdute;
Efiro perdette Pirene, non ebbe Beozia
più Dirce, nei pressi di Argo la fonte Amimone
scomparve. E i fiumi, cui diede la sorte una pari
distanza tra gli argini, i fiumi non ebbero scampo.
Le onde del Tanai svanirono, il vecchio Peneo
svaporò, come pure il Caico, il rapido Ismeno,
il Fegiaco Erimanto, lo Xanto, il biondo Licorma,
e il Meandro, che gioca con le anse ricurve, e l’Eurota,
e il Mela Migdonio; l’Eufrate e l’Oronte seccarono
col Termodonte, col Gange, col Fasi, con l’Istro.
Ribolle l’Alfeo, vanno a fuoco le rive Spercheidi;
quell’oro che il Tago trasporta ora viene giù fuso
e gli uccelli palustri il cui canto adornava le rive
Meonie ora lessano in mezzo al Caistro. Il Nilo,
atterrito, scampò agli estremi del mondo e nascose
la testa in un luogo che ancora risulta introvabile;
restano là sette foci, sette alvei senza
deflusso, ormai pieni di polvere. Simile sorte
è toccata all’Ebro di Ismaro, al fiume Strimone
ai corsi d’Esperia, al Reno, al Rodano, al Po
al Tevere, cui fu promesso il dominio del mondo.
Il suolo si spacca dovunque e la luce abbagliante
s’insinua attraverso le crepe nel Tartaro, e incute
spavento al sovrano infernale e a sua moglie; il mare
recede e al suo posto si estende una plaga di sabbia
riarsa; quei monti che prima le acque coprivano
svettano adesso e le Cicladi sparse diventano
più numerose. Ricercano i pesci il profondo
e i delfini non osano più sopra il filo dell’acqua
incurvarsi alla brezza consueta; affiorano corpi
di foche riverse, ormai prive di vita. Nereo,
si racconta, con Doride e figlie, è andato a nascondersi
in antri più tiepidi. Il volto infuriato, il dio
Poseidone tre volte ha tentato di alzare le braccia
sull’acqua e tre volte non resse l’immane calura.
Però l’Alma Terra, attorniata com’era dal mare,
tra le acque marine e le fonti dovunque insecchite
che in fondo alle viscere oscure materne avevano
avuto rifugio, alzò fino al collo il suo volto
provato e accostò la mano alla fronte, scuotendo
ogni cosa con grande tremore, un poco affondando
oltre quanto era solita e, con venerabile voce,
«Se è questo che vuoi, se questo mi merito», disse,
«perché, o sommo dio, i tuoi fulmini tardano tanto?
Se devo morire per causa di fuoco, fa’ in modo
che muoia del tuo, che la tua volontà mi lenisca
le pene di questa sciagura. Non riesco nemmeno
ad aprire la gola, non riesco a parlare». Un denso
vapore copriva la bocca. «Ecco, guarda i capelli
bruciati, e quante scintille ho negli occhi, sul viso!
È questo il mio premio? Il rispetto che viene alla vita
che do generosa, alla mia devozione? Per questo
sopporto l’aratro ricurvo che scava, sopporto
i rozzi rastrelli per tutto il corso dell’anno,
do fronde alle greggi, do messi e alimenti, do frutti
al genere umano, e a voi servo pure l’incenso?
Poniamo comunque che meriti questa rovina,
il mare che c’entra, che male hanno fatto le onde
e il dio tuo fratello? Perché quelle acque che lui
ebbe in sorte decrescono e aumenta la loro distanza
dall’etere? E se anche il pensiero di me e del fratello
ti lascia insensibile, muoviti almeno a pietà
del tuo cielo: i poli già fumano; osservali entrambi,
perché crolleranno le vostre dimore se il fuoco
li intacca. Non vedi che Atlante fatica e che a stento
le spalle sorreggono l’asse rovente del mondo?
Se i mari, le terre, la reggia celeste andranno
perduti, saremo di nuovo inghiottiti nel caos
primordiale. Se ancora qualcosa è scampato, provvedi
a strapparlo alle fiamme, provvedi alla nostra salvezza».
La Terra non disse più niente, perché non riusciva
di più a sopportare il calore; e in sé la figura
ritrasse negli antri vicini alle anime morte.
Ma l’onnipotente chiamò a testimoni gli dei,
compreso colui che aveva concesso quel carro,
che tutto, seguendo un atroce destino, sarebbe
caduto in rovina in mancanza di un suo intervento;
salì sull’ardita fortezza da dove è solito
stendere sopra la terra cortine di nubi,
da dove sommuove il fragore dei tuoni e i vibranti
fulmini scaglia. Ma non disponeva di nuvole
per ricoprire le terre e di piogge da fare
scrosciare dal cielo. Tuonò, e librato nell’aria
col braccio scagliò sull’auriga il suo fulmine: insieme
sbalzò dalle ruote e strappò dalla vita il ragazzo,
ed estinse quei fuochi con fuoco ancora più crudo.
I cavalli atterriscono, balzano indietro e dal giogo
strappano il collo e le briglie spezzate abbandonano.
Qua sono i freni, là gli assi divelti, più in là
sono i raggi e le ruote spaccate, e sparsi dovunque
per un largo tratto si vedono i resti del carro.
Fetonte precipita; il fuoco gli avvolge i fiammanti
capelli; per ampio percorso del cielo cadendo
egli sfila così come a volte si vede sfilare
una stella, per quanto in effetti non cada. E laggiù,
in un luogo lontano, in un mondo del tutto diverso,
Eridano lo accoglie e gli bagna il volto ustionato.
Le Naiadi Esperie a quel corpo bruciato da trifide
folgore innalzano un tumulo e incidono versi
su un sasso: «Qui giace Fetonte, auriga del carro
paterno; non seppe tenerlo, ma cadde tentando
l’impresa più grande». Ora il padre, accorato, straziato
da lutto crudele, ha coperto il suo viso d’un velo;
un’intera giornata restò senza sole, raccontano,
a crederlo. I fuochi facevano luce nel giorno.
Almeno a una cosa servì quella grande sciagura.
Ovidio, Metamorfosi, libro II. Traduzione Leonardo Badioli