Il terzo tempo
Una comparazione tra esperienze referendarie. Aerei svedesi e fusione tra i comuni di Senigallia e Morro. La responsabilità di chi detta le regole. Quando il fatto di parlare e decidere è più importante delle cose che ci possiamo dire e che possiamo ottenere.
di Leonardo Badioli
Cinque anni fa, nel 2014, la Svizzera si trovò ad affrontare in uno dei suoi tanti referendum una questione piuttosto lacerante per l’opinione pubblica: se acquistare o no un certo numero di aerei da combattimento prodotti dalla svedese SAAB. Il dibattito fu talmente vibrante e sentito dalla popolazione che tre anni dopo un regista, Frédéric Gonseth, ne volle trarre un film documentario: “La bataille du Gripen”. Gripen, “falcone”, era il nome del cacciabombardiere. (https://www.ecomarchenews.com/la-battaglia-del-gripen/)
Ne rese testimonianza allora Cesare Spoletini, nostro collaboratore all’ECO, all’opinione pubblica italiana. La scena finale, se ben ricordo, era quella dei due primi contendenti, “il pacifista” e “il militare”, che, conclusa la consultazione, bevevano una birra insieme. Nello sport si chiamerebbe “terzo tempo”. La vittoria andò al NO, ma più importante ancora fu che avevano vinto la civiltà e la democrazia.
Una breve sosta di passaggio in un bar di Morro d’Alba, paese di circa duemila abitanti in provincia di Ancona, basterebbe per raccontare un altro film. Anche qui, tre anni fa (2016), si tenne un referendum: favorevoli o contrari alla fusione per incorporazione di quel comune con quello più grande di Senigallia. Il referendum era solo consultivo – dunque senza quorum – e si tenne in entrambi i comuni interessati dalla proposta: Morro, appunto, e Senigallia.
Ben diversa però la tensione sulla quale si tenne il confronto: vivissima nel paese da inglobare, quasi nulla nella città proposta come inglobante. A Morro d’Alba la campagna referendaria era stata un crescendo di dibattiti infastiditi culminata nei giorni più prossimi al voto, con un grave fatto: il familiare di una delle persone più direttamente coinvolte nella vicenda tentò l’estremo gesto, si disse per le ripetute accuse di tradimento da parte dei compaesani. “Una notizia che ha profondamente turbato il paese a poche ore dal referendum” commentò la stampa, tanto che furono sospese tutte le attività di propaganda referendaria.
L’emozione era grande, ma nessuna delle due parti tentò di incolpare l’altra, oppure si trattenne dal farlo, avvolti tutti da un cupo silenzio. L’affluenza, poi, com’era prevedibile, fu alta a Morro d’Alba: 77,5%, per un quasi 70% di No, e bassissima, poco più del 16%, a Senigallia, ma anche qui con una prevalenza del No superiore al 60 % dei votanti.
Esultanza contenuta all’indomani da parte dei vincenti: non solo per il prolungarsi dell’ansia per la sorte della persona che lottava tra la vita e la morte, ma anche nella considerazione che cantare vittoria avrebbe potuto svegliare il senso di rivincita dell’autorità regionale, politicamente favorevole alla fusione. La Regione Marche, infatti, già da tempo aveva deliberato un programma di fusioni e di accorpamenti dei comuni, e si era riservata comunque la facoltà di dire l’ultima parola. Avrebbe dunque accettato il consulto popolare oppure l’avrebbe ignorato?
Per tre anni la parola “fusione” non fu più pronunciata, ma i passaggi successivi hanno fatto come il sale su una ferita. Ci sono state le elezioni comunali e gli schieramenti e i singoli candidati si dislocano anche non in base all’appartenenza politica, ma all’atteggiamento tenuto nella controversia. Forse non si doveva trasformare il comitato in proposta politica e limitarsi a espressione referendaria; ma in un quadro in cui è la politica che può decidere anche a dispetto della contrarietà popolare, sembrò necessario conquistare quelle posizioni che diversamente avrebbero permesso la loro svendita.
Le hanno conquistate; ma già l’anno successivo, e da allora ripetutamente, la Regione è tornata alla carica proponendo un diverso criterio nel conteggio del voto referendario: nella considerazione che in tutti i casi di referendum per incorporazione di un comune piccolo in uno grande, tra gli elettori della città più grande, quella incorporante, prevalevano i SI e tra gli elettori di quella più piccola, da incorporare, prevalevano i NO, la Giunta Regionale propose di considerare la fusione come già avvenuta e di conteggiare i voti in modo unificato, in modo da facilitare la vittoria dei SI.
Tale cautela non avrebbe potuto in nessun modo influenzare il voto già avvenuto tra Morro e Senigallia perché in questo caso – unico nella regione e forse unico in Italia – anche la città più grande, quella inglobante, aveva visto la prevalenza del No. Ma che un simile (chiamiamolo) atto di pirateria da parte del potere regionale fosse comunque controverso e contrastato, lo dimostra il fatto che il provvedimento correttivo, consegnato all’Assemblea Regionale per la convalida, si è dovuto scontrare con la coscienza personale di alcuni votanti che si sono sfilati dalla disciplina di partito in modo tale che la votazione è finita in parità, e dunque non è (ancora) passato.
Nessun tripudio a Senigallia per avere eluso la volontà sopraffattrice della Regione, e tanto meno a Morro, dove l’argomento ha ormai diviso la popolazione come una lama e prodotto una ferita che è facile immaginare durerà a lungo. E dire che qui, nonché la birra, non sarebbe certo mancato il Lacrima di Morro per brindare insieme!
Vediamo dunque, a partire da questa narrazione, quali siano le cause che hanno prodotto effetti così desiderabili e tanto distanti dai modelli ottimali.
A cosa si deve tanto inasprimento?
A me che sono stato forte sostenitore del NO verrebbe di attribuire per intero le cause alla pretestuosità del quesito, ai modi ricattatori di proporlo e all’atteggiamento sprezzante di chi aveva messo a punto la proposta; e devo ammettere che a fatica riesco a distaccarmi da questa convinzione.
Nessuna preparazione delle popolazioni al proposito di fondersi in un’unica comunità; lo studio raffazzonato e condotto da figure professionalmente inadeguate; la trama tenuta nascosta fino all’ultimo, con l’intenzione espressa di cogliere l’occasione e quasi di strappare il consenso con la sorpresa e con la sudditanza; la partitizzazione dell’opinione nel merito; l’evidente eterogeneità dei fini da parte del comune più grande: lucrare l’incentivo a favore del proprio bilancio più che fondere insieme le due amministrazioni; la presunzione di lungimiranza col risvolto implicito della scarsa facoltà di prevedere da parte di chi non è d’accordo; l’intorbidamento e il misconoscimento degli effetti che la fusione avrebbe avuto nei confronti dei produttori di vini che hanno tipicità in entrambi i comuni ma che sono per lo più dislocati nel comune di Morro, del quale il Lacrima assume il nome; la forzatura all’abbraccio che non tenne conto del fatto che Morro era già appartenente a una unione con due altri comuni vicini della medesima dimensione, dalla quale non si sapeva ancora come quel comune sarebbe uscito; i vaneggiamenti circa una storia comune, esumata dal nulla e francamente improbabile; la presunzione di spiegare che la fusione potesse essere una via obbligata, e l’unica possibile.
Se da una parte, quella senigalliese, il referendum non ottenne che il 16% – un po’ pochino se pensiamo che i suoi amministratori erano i principali proponenti (non sarà inutile ricordare che il Comune di Senigallia non ha mai reso possibile l’uso dello strumento referendario locale malgrado esso fosse previsto nel suo statuto approvato trent’anni fa) – dalla parte di Morro il referendum ottenne una percentuale molto alta di votanti – a riprova che la questione era molto sentita in un verso o nell’altro.
Tutto questo in un quadro di riferimento regionale volutamente sospeso e frutto di disposizioni proceduralmente ambigue: a cosa sarebbe servito votare NO se poi la Regione manteneva la facoltà di non tenerne conto?
E poi, in una cornice ancora più ampia, la diffidenza che i governi nazionale e locali mantenevano verso la consultazione referendaria, negli anni sempre più ardua e più volte apertamente sabotata in modo che per renderlo inefficace bastava scoraggiare il voto in modo che il quorum non fosse raggiunto.
Tuttavia, il dolore che ancora si tocca con mano anche solo fermandosi in un bar nel paese di Morro consiglia di rivedere anche l’atteggiamento tenuto da chi riteneva di salvare l’identità, le attività e la storia del piccolo comune dalla voracità del grande e dai disegni geopolitici sovrastanti. Difficile richiamare con proprietà l’atmosfera aspra di quei giorni, quando si rompevano le amicizie e si incrinava l’armonia del paese in ragione dell’atteggiamento di ciascuno. Forse – ho pensato a un certo punto – è stato un errore costruire una lista per le elezioni comunali successive a partire dal comitato referendario vincente, quello del NO, se non si voleva correre il rischio di trasferire i contenuti e i malumori referendari nella politica rappresentativa; ma ricordo che le persone del Comitato del No a Morro d’Alba furono molto prudenti e sommesse, un po’ perché temevano di suscitare risposte revansciste da parte della Giunta Regionale, ma soprattutto per l’alone drammatico in cui la stessa votazione si era tenuta.
Possiamo chiederci allora cosa possiamo fare perché il confronto delle opinioni e la partecipazione diretta delle popolazioni al procedimento decisionale non degeneri in rivalità e odio ma si tenga entro i limiti del rispetto del diritto di ciascuno. Credo che l’analisi di quanto avviene sotto i nostri occhi e il confronto con l’esperienza chi ne ha di più in termini di pratica e di principio non mancherà di fornire adeguate risposte. Per esempio quella che la facoltà di confrontare le nostre idee senza mancare di rispetto delle altrui sia ancora più importante delle cose che ci potremmo dire.