“Il Vescovado di Sinigaglia fu sempre insigne” è un’affermazione di Lodovico Siena, nella sua Storia della città di Sinigaglia edita nel 1746. Pronti a condividere tale asserzione, non eravamo consapevoli che all’alto magistero esercitato nella nostra Diocesi dai Vescovi fosse connesso un titolo nobiliare, quello di Conte.
Che spesso accanto al nome dei nostri Vescovi apparisse il titolo di conte non ci aveva particolarmente stupiti, dato che frequentemente i prelati di tal rango provenivano da famiglie nobili. Eppure ci avrebbe dovuto far riflettere (ma eravamo fanciulli) il Vescovo Umberto Ravetta quando, con il suo ineffabile sorriso che ben si sposava al suo accento veneto, affermava: “Io sono Conte di famiglia e non perché sono Vescovo”. Lo Spreti scrive: “Sin dal 22 Agosto 1399 a rogito di Ser Cecco da Recanati, la Mensa Vescovile di Senigallia prese possesso delle terre del Vaccarile, e fino all’abolizione dei feudi vi esercitò da Domina il mero e misto imperio”. Questo significa che nell’ambito del feudo si attribuiva al Vescovo l’esercizio di tutti i poteri: politico, militare, giudiziario, amministrativo. Il Siena aggiunge che i Vescovi “possedevano vari Fondi considerabili, ed erano provveduti di Soldatesche, delle quali prevaler si potessero alle occorrenze. In oggi essendo lor rimasta la grossa Contea del Vaccarile, e Porcozzone […]”.
Due sono quindi i feudi del Vescovo di Senigallia: il Vaccarile (nel Comune di Ostra), di cui l’Eccellenza è Conte, e Porcozzone (nel Comune di Ripe). A questa seconda località, che è di proprietà del Vescovato, è connesso un titolo di Conte, il che significa che, colui al quale viene assegnata in enfiteusi (che in fondo è una specie di affitto) acquisisce automaticamente con il territorio il titolo comitale fino alla scadenza del contratto. Di questa particolare situazione di Porcozzone non abbiamo trovato fonti primarie, ma essa può essere facilmente dedotta da quanto vari storici hanno concordemente tramandato sui nostri Vescovi.
Nel 1449 il Vescovo Antonio I Colombella affidava a Giovanni Rinaldo, figlio del Capitano Mostarda della Strada, la Villa di Porcozzone in enfiteusi per tre generazioni; il contratto fu analogamente rinnovato al successore Marco Mostarda dal Vescovo Cristoforo II di Biandrate nel 1471. I rapporti con i Mostarda si deteriorarono con i Vescovi rovereschi. Nel 1483 Marco Vigerio I della Rovere concesse l’enfiteusi per tre generazioni a Piergentile di Rodolfo Varano. Nel 1569 il Vescovo Urbano Vigerio fece un’assegnazione che aveva una precisa e diversa finalità per suo cugino Marco Antonio Vigerio. Questi, avendo avuto in enfiteusi la Contea di Porcozzone, ne assunse il titolo comitale, sostanzialmente un espediente che gli consentì di essere ascritto al Consiglio dei Nobili della nostra città.
A simboleggiare diritti e privilegi temporali del Vescovo era perdurato fino a qualche decennio fa un cerimoniale particolare. Nelle festività solenni, alla Messa principale celebrata dal Vescovo in Duomo, sull’Altare maggiore venivano esposti il morione e la spada. Di questi ci parla anche il Monti-Guarnieri.
Sulla simbologia della spada è inutile soffermarsi. Più interessante è parlare del morione, un tipo di elmo in acciaio usato nei secoli XV e XVI soprattutto dagli archibugieri: è a coppo emisferico con un’alta cresta e un orlo che termina sia anteriormente sia posteriormente a punta.
Uno dei più famosi tipi di morione fu quello che ci riporta al Papa Guerriero dei della Rovere, Giulio II. Egli stabilì che i suoi militi portassero questo tipo di elmo: in esso, a destra e a sinistra, figurava a sbalzo la quercia roveresca. Nei secoli esso è caduto in disuso, ma viene ancora oggi indossato dalle Guardie Svizzere in speciali occasioni: quando è prescritta l’uniforme di gala, sulla cresta si applica una piuma di struzzo, di colore diverso a seconda del grado militare.
A Senigallia morione e spada del cerimoniale erano sopravvissuti fino a qualche decennio fa.
Tra i testimoni figura Leonardo Badioli, esempio vivace di quanto sia imprevedibile l’evolvibilità della natura umana. Il grande Leo nasce dietro il Duomo ed è quindi vocato ad una attività di chierichetto, veste nera e cotta bianca per intenderci. Alle sollecitazioni angeliche si univa il fascino dell’avventura, che si sostanziava anche nel rifugiarsi negli armadioni della sacrestia, dove un giorno si imbatté in un elmo piumato e in una spada che divennero il suo copricapo e la sua Durlindana in imprese tutte gestite all’interno del Palazzo. Superata l’età dei giochi infantili, insieme alla spada il morione fu riposto nell’armadio, dove fu ripetutamente visto da altri e donde fu poi estromesso per finire nel vuoto della negligenza.
Mentre gli storici del passato parlano genericamente di morione, Leo precisa che il suo era un elmo da torneo o da battaglia, munito di celata, cioè di foggia più antica: esso meglio si attaglierebbe al periodo della istituzione della Contea Vescovile.
Sorte migliore non toccò all’altro simbolo del potere temporale, la spada. Alcuni decenni fa venne utilizzata a Senigallia per una recita in costume dei seminaristi: pare di sentire l’odore dei biscotti all’ammoniaca preparati dalle suore e distribuiti dopo gli applausi ai seminaristi, interpreti e non, e al pubblico, tra cui sarà stato indubbiamente anche Sua Eccellenza. Con l’aroma acre dell’ammoniaca svanì anche la Spada. Per negligenza.
Flavio e Gabriela Solazzi