La Cambogia è una nazione che non può non entrarti nel cuore. Ricordo il mio primo incontro con questa terra: la frontiera di Poipet, con i bambini nudi e poverissimi a mendicare qualche centesimo per sopravvivere ed i tanti mutilati agli arti inferiori, a causa delle mine antiuomo, a bordo di speciali biciclette con manubri “a pedale”, a compiere con dignità i loro umili lavori. Poter ammirare al primo albore i magnifici templi Khmer di Angkor, una delle meraviglie del mondo, vale ogni centimetro dei 150 km percorsi in oltre dieci ore su tortuosi cammini di fango e di fortuna, prima a bordo di un autobus il cui motore si rompe in piena notte e, poi, nel cassone di un fuoristrada insieme ad altre dieci persone ed ai sacchi di riso. Mi viene in mente due anni dopo il mio secondo incontro con la Cambogia, varcata la frontiera di Hat Lek, a bordo di un motorino che sembrava perdersi nell’orizzonte diretto nel bel mezzo del nulla. Ripenso all’estrema povertà della gente sia nelle campagne e, ancor di più forse, nella capitale Phnom Penh, alla prostituzione dilagante, agli indimenticabili tramonti, al tragitto in battello per la volta del Vietnam, alle fatiche sopportate in una terra dove tutto è difficile. Ma quello che va assolutamente ricordato di questa nazione è una storia troppo brutale per sembrare vera, se non fosse per i luoghi della memoria, le prigioni di Tuol Sleng ed il campo di concentramento di Choeung Ek, con il monumento a forma piramidale contenente i resti ben visibili di oltre 8.000 persone. Nell’Aprile del 1975, infatti, i militari rivoluzionari della Democratic Kampuchea, più conosciuti come Khmer Rossi, guidati da Pol Pot, invasero la capitale della Cambogia Phnom Penh: in poche settimane fecero evacuare le città e dichiararono morta la storia, dando inizio ad un genocidio che per brutalità, follia e numero di morti (oltre 2 milioni) conosce paragoni solo con l’olocausto nazista.
I Khmer Rossi dichiararono nemici della nazione ed uccisero tutti coloro che avessero avuto rapporti con il precedente governo (militari, insegnanti, dottori, lavoratori pubblici, ecc.)e con persone residenti all’estero, chiunque possedesse qualcosa, qualunque persona avesse un minimo d’educazione; deportarono nelle campagne e ammazzarono gli abitanti delle città, separarono famiglie uccidendo chi non poteva essere d’aiuto alla nazione con il suo lavoro nei campi. Tra esecuzioni, persone morte di fame, di stenti, di persecuzioni o di malattie comuni si calcola che sotto quel regime sia morta circa un terzo della popolazione cambogiana. Visitando questa stupenda nazione si sente a pelle come le ferite restino ancora intatte a circa quarant’anni dal tragico periodo. Purtroppo pochi in Italia, soprattutto i più giovani (me compreso prima di visitare la Cambogia), conoscono realmente questa storia a noi tanto lontana, forse non così tanto.
Ho tradotto parti di racconti di due sopravvissuti tratti dal libro Children of Cambodia’s Killing Fields – Memoirs by Survivors: il testo è toccante, sconvolgente, ogni singola frase meriterebbe una lunga riflessione. Scrive Teeda Butt Mam “Avevo 15 anni quando Pol Pot e i Khmer Rossi salirono al potere dopo anni di guerra civile, ma posso ancora ricordare la mia gioia per il fatto che la guerra fosse finalmente finita. Non mi importava chi avesse vinto, ogni cambogiano, me compresa, voleva la pace ad ogni costo, per noi non aveva senso uccidere fratelli e sorelle per una causa che non era la nostra. Eravamo pronti ad appoggiare il nuovo governo per ricostruire la nazione, purtroppo non avevamo capito quanto sarebbe stato alto il prezzo da pagare per questa pace. I Khmer Rossi erano tanto intelligenti, quanto brutali, troppo furbi perché noi avessimo potuto comprendere le loro vere intenzioni. Loro avevano abbandonato le proprie famiglie per liberarci, rischiato le loro vite per ideali come giustizia ed eguaglianza, come potevamo solo lontanamente immaginare quello che avrebbero fatto poi? Come fecero questi vermi a spuntare dalla nostra stessa pelle?”. Scrive Youkimny Chan “Avevo solo 14 anni. Appena ci liberarono, i Khmer Rossi costrinsero milioni di abitanti di tutte le città a lasciare le loro case, dicendoci che sarebbe stato soltanto per tre giorni e che in quei tre giorni avrebbero ‘ripulito’ la città, per vivere poi al sicuro. Poi vennero ancora per annunciarci che saremmo dovuti partire in fretta per il pericolo dei bombardamenti dei B- 52 Americani, ma ci tranquillizzarono dichiarando che li avrebbero sconfitti in poco tempo, così da poter presto ritornare. Continuavano a ripetere che loro non avrebbero permesso che gli americani ci avessero fatto del male: erano i nostri compatrioti, non avevamo alcuna ragione per non credergli. Così in tutta fretta prendemmo quello che potemmo. All’inizio lasciare Phnom Penh fu come un’avventura, mettemmo nella macchina tutto ciò che si poteva, abiti, cibo, valori e partimmo. Partimmo tutti insieme, alcuni in auto, altri camminandogli a fianco e, con noi, centinaia di migliaia di persone intasavano tutte le strade, mai vista una cosa simile! C’era gente ovunque che trasportava di tutto, un rumore infernale, un traffico spaventoso e si andava a passo d’uomo. Il giorno dopo i militari vennero da noi costringendoci con le armi a lasciargli la macchina, tutte le cose di valore e quasi tutti i nostri vestiti. Era la stagione secca, un caldo infernale, non c’era acqua e i più deboli non ce la fecero, cominciando ad avere collassi, ma non erano concesse soste. I soldati avevano i fucili puntati verso di noi, non ci facevano fermare e ci accompagnavano i carri armati. Vidi donne partorire sotto gli alberi, in ogni dove urla di persone in lacrime che piangevano i propri bambini e i propri cari morti per strada, i vecchi morirono di stenti. Non c’era tempo per i funerali, allora i corpi martoriati venivano gettati in fosse comuni.
Una sera vidi due uomini con le mani legate dietro la testa e dei militari che li interrogavano, poi i militari tagliarono le loro teste e le gettarono in una fossa insieme ai corpi: furono le prime esecuzioni di una lunga serie di cui fui testimone. Persone uccise davanti ai miei occhi, amici, parenti, vicini di casa e noi dovevamo continuare a camminare, non potevo credere a quello che stava accadendo. Camminammo per giorni e giorni, per strada migliaia e migliaia di cambogiani morirono di fame, malattie e per le esecuzioni. Dopo due mesi e mezzo di cammino finalmente arrivammo nei campi a cui eravamo stati designati, ma tutti i sopravvissuti incominciarono a star male, chi di fame, chi di malaria, chi di altre malattie e non c’erano né medicine né dottori”. Se vi capita una visita al campo di sterminio Choeung Ek di Phnom Penh, camminando fra la natura rigogliosa e le verdi piante, ci si imbatte in un albero normale ma non comune, non so di che specie sia, uno con un piccolo cartello in legno attaccato su due chiodi e con una piccola scritta: “questo è l’albero contro cui gli esecutori sbattevano i bambini”. Bisognava risparmiare pallottole, quindi scelsero quell’albero per ucciderli; a meno che non volessero divertirsi un po’, allora gettavano i poveri bimbi in aria sparandogli in un atroce tiro a segno. Poco dopo la liberazione, nell’Aprile 1979 (il capodanno Buddista), quattro anni dopo che Pol Pot e i Khmer Rossi salirono al potere, mi unii ad un gruppo di cadaveri viventi che ballavano al suon di musica. Celebravamo il miracolo che aveva salvato le nostre vite: solo in quel momento sentii che il mio spirito e la mia anima erano ritornati nel mio corpo martoriato, solo in quel momento ritornai un essere umano”.
Gianluca Goffi