Ferdinando Aiuti sconfisse la paura con un bacio
Scienziato di fama mondiale, nato a Urbino nel 1935, autore di oltre 600 pubblicazioni, Aiuti è stato dal 1985 primario di Immunologia a Allergologia clinica al policlinico “Umberto I” di Roma.
Oltre all’impegno scientifico Aiuti si è sempre battuto contro lo stigma sociale nei confronti delle persone sieropositive e affette da Aids. Lo storico bacio del 1991 voleva essere la dimostrazione che il virus non si trasmetteva né con un bacio né con una stretta di mano, come la maggioranza pensava
di Maria Novella De Luca da “la Repubblica” del 10/01
Forse è caduto, forse si è lasciato cadere. Sul pianerottolo del policlinico Gemelli sono rimaste soltanto le sue pantofole. Un tonfo di dieci metri accanto al reparto in cui era ricoverato. Poi il silenzio. Ferdinando Aiuti, uno die più grandi immunologi italiani, il primo e il più tenace pioniere della lotta all’Aids nel nostro paese, è morto così, ieri mattina, a 83 anni. Ultimo atto di una vita dedicata alla cura (e alla difesa), di quei malati che negli anni Ottanta la società respingeva e metteva al bando, come fossero portatori – addirittura – di una nuova peste. Nel 1991 il suo bacio sulla bocca a una ragazza sieropositiva, Rosaria Iardino, che allora aveva 25 anni, oggi ne ha 52, catturato da una foto in bianco e nero, diventò un formidabile spot contro la discriminazione che colpiva le vittime della sindrome da immunodeficienza acquisita. Così raccontava Aiuti: “Erano anni tremendi. Morivano tutti. Il primo paziente infetto arrivò nel mio istituto nel 1983. Eravamo in trincea. C’era uno spaventoso stigma sociale: i sieropositivi facevano paura, per questo bacia Rosaria. I dentisti si rifiutavano di curarli, i colleghi medici pretendevano camere operatorie separate, i malati venivano licenziati, i bambini espulsi dalle scuole. La cosa più dura era veder morire i bambini. Se pensiamo che oggi di neonato positivi non ne nascono più, che ho pazienti in vita infettati addirittura nel ’87, è evidente la rivoluzione portata dai farmaci. Ma sopravvivere non vuol dire che abbiamo vinto. Si deve tornare al test di massa, soltanto così fermeremo il virus”.
E da qui, dalla “trincea” del grande ospedale romano, punto di riferimento per i malati di tutta Italia, Ferdinando Aiuti aveva lanciato la sua campagna non soltanto contro la malattia, ma anche contro il folle “apartheid” nel quale venivano confinati i sieropositivi, fondando nel 1985 Anlaids, l’associazione nazionale per la lotta contro l’Aids.
Una lotta che si doveva basare su ricerca, cura, ma soprattutto su prevenzione e test di massa. Proprio o questa era, infatti, il messaggio della prima campagna italiana contro l’Hiv, lanciata dal ministero della Sanità nel 1989: “Aids, se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”.
Una battaglia che sfidava morale e censure, visto che nella prima fase di diffusione dell’Hiv, le categorie più colpite furono quelle degli omosessuali e quella dei tossicodipendenti. Campagne per l’uso dei profilattici, per il sesso sicuro, per la distribuzione di siringhe pulite. Uno “scienziato attivista”, uno dei primi, così lo ha ricordato infatti Stefano Vella, ex presidente dell’International Aids Society, amico, collega e compagno di battaglie di Aiuti al policlinico “Umberto I”. “E’ stato un grande immunologo, precursore di molte scoperte sull’Hiv. Ma sapeva nello stesso tempo che la battaglia contro la malattia era anche sociale e politica”. Si deve infatti alla tenacia di Ferdinando Aiuti, la nascita di una legge fondamentale per l’assistenza ai malati di Hiv, la legge 130 del 1990. Enormi le risorse che vengono stanziate per creare, in tutti gli ospedali, centri che garantiscano cure gratuite per tutti. Scomodo, battagliero, ruvido, Ferdinando Aiuti ha avuto anche una breve parentesi politica tra il 2008 e il 2013, prima con il Pdl, poi con la giunta Alemanno a Roma, ma senza essere eletto. Anche un suo storico “nemico”, Vittorio Agnoletto, medico, fondatore della “Lila”, lega italiana lotta all’Aids, ricorda la passione civile di Aiuti. “Ci univa l’impegno nella lotta contro quella che era definita all’epoca la “peste del secolo” e ci univa la richiesta ai governi di superare falsi integralismi e moralismi e a mettere al primo posto la prevenzione, perché in Italia si parlasse apertamente dell’uso del profilattico”.
Nel 1996 l’arrivo dei farmaci antiretrovirali, cambia la vita dei sieropositivi. Come Rosaria Iardino ad esempio, infettata a 17 anni, ma oggi ancora viva. “Noi dovevamo morire tutti”, raccontano i long survivor, circa 150 mila in Italia, “negli anni Ottanta se ti ammali avevi pochissime speranze di sopravvivere”. Poi la rivoluzione. Con quei farmaci la malattia si cronicizza, di Aids non si muore più. Ma la malattia non è vinta. Soltanto un mese fa, Aiuti ammoniva: “I giovani non sanno niente di Aids, sono scomparse le campagne istituzionali di prevenzione. Ma l’Aids colpisce ancora, con 3.500 nuove infezioni all’anno. Servono campagne di massa per invitare a fare i test per l’Hiv”.
Un appello, che suona come un testamento per le generazioni future.