Il Professore Sandro Genovali è deceduto il 21 settembre all’ospedale di Senigallia. Aveva 83 anni. Uomo di grande cultura, noto in tutta Italia come critico letterario, autore di numerosi saggi.
Cercare il profondo
di Leonardo Badioli
Questo nostro parlare di monitor e di pontoni, però, mi rimandava una specie di ritorno in cuffia, un armonico, un suono composto: ma composto dove, e da chi? La domanda mi ha inseguito per parecchi giorni; poi, caduta la curiosità, succede che una bolla si stacca dal fondo, risale in superficie e viene fuori la voce di Sandro Genovali che legge Rimbaud. Monitor e velieri anseatici, pontoni dallo sguardo orrendo e marinai che à reculons scendono al sonno. Gli telefono che vado, ma abita dietro la torre, riparato dal mare; bisogna salire e la strada è una rampa che stronca le gambe. Scavalcata la cima e arrivati davanti al cancello non c’è da suonare, né il nome. Di là dalle sbarre tra un fascio di rami si streccia un viottolo pieno di foglie. Non chiamo. Aspetto lì fuori mezz’ora finché non lo vedo di spalle, in camicia e foulard, che attraversa il giardino. La casa si è arresa alle piante e lui ad entrambe; ogni cosa lì intorno si stringe a formare un incarto dell’anima. Odore probabile di cinnamomo.
Salivamo la costa io e Klaus, immerso ciascuno nei propri pensieri, e intanto mi andavo figurando i possibili rischi dell’incontro. Con tutta la prudenza che ci vuole a non sgualcire l’involucro pneumatico di Sandro gli avrei chiesto di leggermi Le bateau ivre. Lui, senza meraviglia, avrebbe aperto il libro e, cautamente come un ortolano che si muove tra le sue piantine, si sarebbe inoltrato tra le righe; seguendo poi i traccianti al fosforo di quella poesia (panorama di tempeste, cieli che si squarciano, immagini di lampi, trombe, risacca e albe che si esaltano come colombe) si sarebbe abbandonato al fluire dei versi per immergersi, ormai libero da ormeggi, nel poema del mare; così, senza interromperlo, l’avrei seguito fino al punto in cui si trovano i semigalleggianti di cui vorrei sapere.
«Vediamo», immaginavo che mi avrebbe detto. «Il Veggente dapprima va danzando come un sughero sopra le onde; a un certo punto affonda, trasformato in uno scafo d’abete (che è il suo corrispondente oggettuale), dove a volte scende pensoso un annegato; allora sopra l’ebbra carcassa, o sopra lui che nuota, si sollevano monitor sprezzanti e pontoni dagli occhi orribili come incubi notturni. Va bene: qui si parla di naufraghi e qui ci sono monitor, ci sono pontoni. Che incidenza può avere tutto questo sulla poesia?»
«Sono lenti, tronfi e non tengono il mare», posso aggiungere io per informarlo, «metà sommergibili e metà corazzate: un modo nuovo di correre la costa messo a punto nemmeno dieci anni prima, nel corso della Guerra di Secessione Americana. Sicari senza volto tra le navi di legno, invulnerabili, cattivi. Mettevano paura».
Lo vedo che solleva quei suoi occhi opalini mentre un taglio di sole gli attraversa il viso (bellezza di Sandro: una rosa d’inverno) e che si sforza di capire cosa c’entri un oggetto così ottuso in un canestro tutto pieno di astri lattescenti e di cieli ultramarini. Ma adesso sta’ a vedere che mi dice: «Allora è una lettura storicistica. Il semplice fatto che li nomina vuol dire che al suo tempo avranno avuto un’importanza. Lui scrive il Bateau nel 1871: trovarci questi monitor, questi pontoni armati può essere una testimonianza… era questo che intendevi dire?».
Risposta peggiore non potrebbe arrivare da uno che vive di poesia: con garbo cortese fa capire che non gli appartiene. Inutile allora sperare che sia lui a chiarire la faccenda della barca che va a festa utilizzando le parole della poesia; tocca a noi proporre una lettura convincente, se non altro che giustifichi la visita.
Tu, Klaus, che ne dici? D’accordo: poeta e marinai sono indotti a cercare il profondo. Ma io mi domando: possibile che monitor e annegati siano solo petardi per il ragazzaccio Rimbaud, deliri immaginifici senza riscontri? Ho capito: vuoi dire che la parola ermetica è l’unica trasmissione possibile dell’io profondo, e che pertanto sarebbe sbagliato ridurla all’evento, alla cosa narrata. Insomma dai ragione a lui. Ma allora la domanda è: possibile che il dramma archetipale di una nave che affonda con tutti i marinai non trovi in questo profondo rispondenze, depositi, rigonfiamenti, insomma una presura dell’anima che lo riveli? Ma certo: il mare di Rimbaud è metafora volante mentre quello che inghiotte i marinai è un naufragio reale; ma alla fine dimmi tu che differenza c’è tra simbolico e reale quando tutto è accaduto.
La festa del poeta si traduce in tristezza. Quando il mare è domato non rimane per lui che il pensiero di un bambino che vara barchette di carta in una pozzanghera nera. Non so cosa rimane ai marinai di quelle navi effimere, ma è possibile allora immaginare come, da una storia infinitamente triste quale è quella di una nave che va a fondo, possa nascere il pensiero di una festa che li sta aspettando. Anche se, come dice Montale, “non s’era visto mai / che un naufrago incapace di nuotare / delirasse di gioia mentre la nave / colava a picco”.
Arrivati sotto l’ombra della torre, io e Klaus abbiamo rifiatato; poi, discesa la stradina e pervenuti nei pressi del cancello, ho avuto la certezza che il mio canovaccio si sarebbe stramato come garza nel momento in cui mi fossi trovato a recitarlo.
Ho aspettato lì fuori per mezz’ora buona, fino a che non l’ho visto di spalle attraversare il giardino. Ho indugiato ancora un po’ per sincerarmi se volevo chiamarlo per davvero; poi, come l’ho visto scomparire dietro quella siepe, ho dato un’occhiata al buon cagnaccio, abbiamo fatto dietro front e siamo andati via.