Il 23 novembre del 1980, alle 19,34, dall’Irpinia al Vulture, la terra trema

 

O probabilmente a respingerle fu una specie di tuono sotto la palazzina, sotto lo stradone, come se uno dei camion che passavano in continuazione avesse trovato il modo di sterzare nella nostra direzione, scendere veloce sottoterra col motore al massimo dei giri e correre tra le nostra fondamenta investendo e spezzando ogni cosa.

Mi si mozzò il respiro, per una frazione di secondo non capii che cosa stava succedendo. La tazza del caffè tremò sul piattino, la gamba del tavolo mi urtò un ginocchio. Balzai su, mi resi conto che anche Lila si allarmava, stava provando ad alzarsi. La sedia le si inclinò alle spalle, lei cercò di afferrarla, ma lo fece lentamente, curva, una mano tesa davanti a sé, nella mia direzione, l’altra che si allungava verso la spalliera, gli occhi stretti come quando si concentrava prima di reagire. Il tuono intanto seguitava a correre sotto la palazzina, un vento sotterraneo stava levando contro il pavimento onde di un mare segreto. Guardai il soffitto, la lampadina oscillava insieme alla copertura di vetro rosato.

Il terremoto, gridai. La terra si muoveva, una tempesta invisibile mi stava scoppiando sotto i piedi, scrollava la stanza con un urlio di bosco piegato da raffiche di vento. I muri scricchiolavano, parevano gonfi, si scollavano e rincollavano agli angoli. Giù dal soffitto pioveva una nebbia di polvere cui si aggiungeva la nebbia che si allungava dalle pareti. Mi slanciai verso la porta urlando ancora: il terremoto. Ma il movimento era solo un’intenzione, non riuscivo a fare un passo. I piedi mi pesavano, pesava tutto, la testa, il petto, soprattutto la pancia. La terra su cui volevo poggiarmi si sottraeva, per una frazione di secondo c’era e poi subito dopo si allontanava.

Il mio pensiero tornò a Lila, la cercai con lo sguardo. La sedia era finalmente caduta, i mobili – soprattutto una vecchia argentiere con i suoi oggettini, bicchieri, posate, cineserie – vibravano insieme ai vetri delle finestre come erbacce su un cornicione quando c’è la brezza. Lila era in piedi al centro della stanza, curva, a testa china, gli occhi stretti, la fronte corrugata, le mani che tenevano la pancia come se temesse che le schizzasse via per perdersi nello spolvero di intonaco. I secondi scivolavano via ma niente mostrava di voler tornare in ordine, la chiamai. Non reagì, mi sembrò compatta, l’unica tra tutte le forme presenti non soggetta a sussulti, a tremiti. Pareva aver cancellato ogni sentimento: le orecchie non ascoltavano, la gola non inspirava aria, la bocca era serrata, le palpebre cancellavano lo sguardo. Era un organismo immobile, rigido, vivo solo nelle mani che a dita larghe stringevano la pancia.

Lila, chiamai. Mi mossi per afferrarla, trascinarla via, era la cosa più urgente da fare. Ma la mia parte subalterna, quella che credevo indebolita e invece ecco che risorgeva, mi suggerì: forse devi fare come lei, devi restare ferma, piegarti a proteggere la tua creatura, non correre via. Faticai a decidermi. Raggiungerla era difficile, e tuttavia si trattava solo di un passo. L’afferrai alla fine per un braccio, la scrollai, lei aprì gli occhi che mi sembrarono bianchi. Il rumore era insopportabile, faceva rumore tutta la città, il Vesuvio, le strade, il mare, le case vecchie dei Tribunali e dei Quartieri, quelle nuove di Posillipo. Lila si divincolò, gridò: non mi toccare. Fu un urlo rabbioso, m’è rimasto impresso più dei secondi lunghissimi del terremoto. Capii che mi ero sbagliata: lei, sempre al governo di tutto, in quel momento non stava governando niente. Era immobile per l’orrore, temeva che se solo l’avessi sfiorata si sarebbe rotta.

La trascinai all’aperto con strappi violenti, spintoni, suppliche. Avevo paura che alla scossa che ci aveva paralizzate ne sarebbe seguita un’altra, più terribile, definitiva, e tutto ci sarebbe crollato addosso. La rimproverai, la pregai, le ricordai che dovevamo mettere in salvo le creature. Così ci gettammo dentro la scia di grida terrorizzate, un clamore crescente associato a movimenti immotivati, pareva che il cuore del rione e della città fosse prossimo a creparsi. Appena fummo in cortile Lila vomitò, io lottai con la nausea che mi stringeva lo stomaco.

Il terremoto – il terremoto del 23 novembre 1980 con quel suo frantumare infinito – ci entrò dentro le ossa. Cacciò via la consuetudine della stabilità e della solidità, la certezza che ogni attimo sarebbe stato identico a quello seguente, la familiarità dei suoni e dei gesti, la loro sicura riconoscibilità. Subentrò il sospetto verso ogni rassicurazione, la tendenza a credere a ogni profezia di sventura, un’attenzione angosciata ai segni della friabilità del mondo, e fu arduo riprendere il controllo. Secondi e secondi e secondi che non finivano.

Fuori casa era peggio che dentro, tutto era mobile e urlante, fummo investite da dicerie che moltiplicarono il terrore. Si erano visti bagliori rossi verso la ferrovia. Il Vesuvio si era risvegliato. Il mare era andato a sbattere contro Mergellina, la Villa comunale, il Chiatamone. C’erano crolli ai Ponti Rossi, il cimitero del Pianto era sprofondato insieme ai morti, tutta Poggioreale era distrutta. I carcerato o erano sotto le macerie o erano scappati e adesso ammazzavano la gente tanto per farlo. Il tunnel che portava alla Marina era venuto giù, seppellendo mezzo rione che scappava. E le fantasie si nutrivano l’una dell’altra, Lila – vidi – credeva a tutto, tremava stretta al mio braccio. La città è pericolosa, mi sussurrò, ce ne dobbiamo andare, le case si crepano, ci cade tutto addosso, le fogne schizzano per aria, guarda i topi come scappano. Poiché la gente correva alle automobili e le strade si stavano intasando, lei cominciò a tirarmi, mormorava: vanno tutti nelle campagne, là è più sicuro. Voleva correre alla sua macchina, voleva raggiungere uno spazio aperto dove solo il cielo, che pareva leggero, ci poteva cadere in testa. Non riuscivo a calmarla.

Raggiungemmo l’automobile, ma Lila non aveva le chiavi. Eravamo scappate senza prendere niente, c’eravamo tirate la porta alle spalle e, ammesso che avessimo mai trovato il coraggio di farlo, non potevamo rientrare in casa. Afferrai una maniglia con tutte le mie forze, la tirai, la scossi, ma Lila strillò, si mise le mani sulle orecchie come se quel mio tirare producesse un suono e vibrazioni insostenibili. Mi guardai intorno, adocchiai un grosso sasso che s’era staccato da un muretto, spaccai un finestrino. Poi, te lo faccio aggiustare, dissi, ora stiamocene qui, passerà. Ci sistemammo in macchina, ma non passò niente, avevamo continuamente l’impressione che la terra tremasse. Oltre il parabrezza polveroso sorvegliavamo la gente del rione che si era stretta in crocchi a confabulare. Ma quando tutto pareva finalmente acquietato, ecco che qualcuno passava correndo e strillando, cosa che causava un fuggi fuggi generale e urti violenti contro la nostra auto che mi fermavano il cuore. (…)

 

Tratto dal libro “Storia della bambina perduta”, scritto da Elena Ferrante. Edizioni e/o

storia della bambina perduta
1985, Vesuvius, oil on canvas, pop art style, Andy Warhol

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *