Lontani e cari ricordi di noi ragazzi del ’53

di Cesare Campolucci


Roncitelli – Il Castello e la Torre dell’Orologio (Cesare Campolucci)

L’idea di scrivere questo racconto mi è venuta in mente durante le partite a carte in compagnia dei vecchi amici al circolo di Roncitelli. E tra una partita a briscola e una a tressette, ritornava alla memoria il vissuto di quando eravamo piccoli. Il racconto si prefigge perciò lo scopo di far conoscere ai ragazzini di oggi come i loro nonni e i loro genitori vivevano negli anni 50-60. La narrazione inizia con la presentazione del piccolo paese di Roncitelli, posto su una delle colline che circondano Senigallia – dove veniva a trascorrere le vacanze il futuro Papa Pio IX – per poi addentrarsi alla vera vita quotidiana dei ragazzini del borgo. Viene descritta la vita che noi ragazzi di quel tempo conducevamo in famiglia, a scuola e nei momenti di svago rappresentati dai giochi. Sono narrati diversi episodi particolari sia di vita personale sia comunitaria. Tra le tante cose ricordate con precisione e con una certa commozione ci sono le grandi nevicate e il freddo rigido di quel decennio, che isolavano Roncitelli più volte durante l’inverno. Altri ricordi riguardano la dura e faticosa vita dei contadini nei campi.

Vita quotidiana dei giovani nati a Roncitelli nel dopoguerra

Roncitelli, piccola frazione di Senigallia, negli anni cinquanta stava vivendo la sua massima crescita benché già nel secolo scorso godesse di una certa fama poiché talora vi veniva a trascorrere le vacanze il futuro Papa Pio IX originario di Senigallia. Nei primi anni successivi al conflitto la frazione contava un numero di abitanti già pari a millecinquecento. Nelle campagne dei dintorni abitavano le famose «famiglie patriarcali» mentre al centro del paese v’erano gruppi familiari con soltanto due o tre figli al massimo. L’anno 1953 è stato quello del boom delle nascite a Roncitelli, ben nuovi nati: 16. Albonetti Marisella, Ballanti Luciano detto Pittin, Ballanti Luciana, sorella gemella di Pittin, Barzetti Gettulio detto Tullio, Campolucci Cesare detto Cesarino, Carboni Imo, Ciarloni Ivano detto Moreno, Galli Floriana, Giacomelli Paola,Marconi, Ivaldo detto Baldo, Morini Bruna, Paolini Lucio, Pettinari Manuela, Santini Maurizio detto Picchio, Sartini Giancarlo, Schiaroli Renzo.

Veduta del Castello con torre campanaria ed orologio costruito tra la fine del Duecento e inizio Trecento (la foto è anteriore al 1930, anno del terremoto); accanto a sinistra, la Villa dei Conti Mastai Ferretti
(Anna Tamanti Fronzi, Roncitelli, Note di vita sociale, economica, e religiosa da un Cabreo del Settecento – Linea 5 di Senigallia, luglio 1992, p. 17).

In quel periodo Roncitelli era di fatto un borgo completo di tutti i servizi ad esclusione della farmacia. V’erano due scuole elementari; una al centro del paese e un’altra in campagna nella zona detta Rondolina, situata al secondo piano di un’abitazione privata della famiglia Primavera, che disponeva di sole due aule; vi era inoltre una scuola materna posta nei locali parrocchiali dove lavorava la cuoca Angelina. C’erano anche tre negozi di generi alimentari, un Sali e Tabacchi, una Macelleria, una Gelateria; due circoli, l’ACLI (lungo la via principale) e la Casa del Popolo istituita all’interno del Castello, sull’area di un palazzo demolito, ora diventato Circolo A.R.C.I. (Tamanti, Roncitelli, p. 36).

Infine due chiese: Santa Liberata e San Giovanni Battista (quest’ultima fatta erigere da Papa Pio IX), con il Curato Don Quirino e il suo aiuto Don Aurelio. In particolare la devozione dei Roncitellesi per Santa Liberata risale ad almeno 400 anni fa.
Ai primi del Seicento l’immagine della Santa dipinta sul muro aveva già bisogno di essere restaurata (Tamanti, Roncitelli, p. 113). Il culto della Santa, nata da nobile famiglia e dedicatesi all’assistenza ai bisognosi, compare in varie città italiane, ma si ignora da chi sia stato portato a Roncitelli: esisteva già a Roncitelli un’edicoletta alla fine del Cinquecento (Tamanti, Roncitelli, p. 113).

Via San Giovanni Battista

La via San Giovanni Battista è la più importante del paese dove si trovava la maggior parte delle attività artigianali (sartoria, macelleria, gelateria, due negozi di alimentari e tabaccheria, falegnameria e barbieria e la scuola materna). Tra le figure artigiane spiccavano due ciabattini (Federiconi Aldo e Bracci Giuseppe detto Peppe), un sarto (Discepoli Bruno el Sartor), il barbiere Bacchi, un maniscalco (Osvaldo). La sanità era garantita dal medico Mariani, sempre presente e disponibile ad ogni ora del giorno, nonché dalla levatrice Boccali, anche lei in «servizio permanente effettivo»:
L’Ufficio Postale diretto da Veschi Armando e il postino (nonché sacrestano) Dino, garantivano le comunicazioni e la corrispondenza. Per chi voleva un vestito, una giacca, ecc., poteva rivolgersi ad un negozio di stoffe gestito da Dal Fabbro; due falegnamerie, l’una di Peppetta e l’altra di Boccolucci (Guido d Pajarecc) e un fabbro (Sergio De Tabbarin) erano a disposizione degli abitanti del borgo per qualsiasi lavoro utile alle loro case.


La Casa del Popolo (attualmente circolo ARCI) costruita nel 1913.

La pulizia della strade veniva fatta da Dante, lo spazzino del paese e da Mosci David «lo stradino» (pulitore di strade). Un raccoglitore di pelli e cenciaiolo, Sagrati Arduino, cui eravamo soliti vendere rottami e schegge di ferro, residuati bellici, nonché pelli di coniglio. A questi si affiancava Mario Corinaldesi, lo «stracciaro» (straccivendolo). Il pane di certo non mancava; la famiglia Paniconi gestiva un panificio; un meccanico, Spadoni Eliseo (Lisio detto Sparagnin) era sempre pronto per qualsiasi problema che poteva interessare le biciclette, le moto, in prevalenza la vespa e la lambretta; poi un negozio di vendita di piatti e bicchieri gestito dalla famiglia Fronzi; tre frantoi: uno di Crivellini (cui subentrò poi Lugliaroli, Berto de Pompeo), uno al centro del paese della famiglia Pongetti e uno di Bernardini Bernardino (detto Dino d’ Paolon) che possedeva tra l’altro un distributore di benzina davanti alla Chiesa di S. Liberata e l’unica automobile (taxi) del paese, richiesta da tutti i paesani per andare ai matrimoni, alle feste e perfino all’ospedale.


Chiesa di Santa Liberata forse risalente alla fine del Cinquecento.

Ricordiamo anche l’Armanda, paziente e laboriosa ricamatrice che si prestava più che volentieri ad insegnare alle ragazze del paese i rudimenti dell’arte del ricamo. C’era poi il lattaio Moroni che riforniva giornalmente tutte le famiglie del paese di latte fresco. Nel borgo a fine maggio si svolgeva inoltre una delle più grandi fiere di bestiame della zona. Oggi purtroppo restano solo due circoli, la scuola materna, le due chiese, il medico a tempo e l’ufficio postale a giorni alterni.

Molto dura era la vita in quel periodo, perché eravamo appena usciti dalla guerra, ma nel contempo avevamo tanta speranza nel futuro e questo ci rendeva felici, anche se poveri … ma poveri di tutto. Le porte delle case erano sempre aperte e non necessitavano certo i portoni blindati né allarmi anche perché non avevamo né ori, né argenterie e nessun’altro tipo di valori speciali.


Via Gioco del Pallone: luogo dove venivano svolte le fiere, in particolare quella del bestiame da metà Settecento agli anni ’60 del Novecento.

Le abitazioni, molto spartane, erano prive di impianti di riscaldamento; poche erano quelle provviste di servizi igienici; c’erano le latrine, in molti casi distaccate dall’abitazione; totale assenza di frigoriferi e televisori. L’acqua potabile era presente solo in paese mentre la campagna ne era sprovvista e pertanto utilizzava quella del pozzo che in estate fungeva pure da frigorifero. In fondo al paese era presente un grande forno in muratura, tuttora funzionante, a quel tempo di proprietà della Maggiora, allora era usato da tutti gli abitanti del rione per cuocere il pane una volta alla settimana, nonché arrosti e dolci. A ridosso delle mura di sostegno all’altezza del monumento c’era un lavatoio pubblico ma proseguendo lungo il viottolo si raggiungeva un altro lavatoio detto la fonte di Sartin dove le donne potevano recarsi per lavare la biancheria e i panni. C’era anche un gabinetto pubblico alla turca. Ora è stato tutto demolito. Allora ci si lavava dentro un mastello di zinco o di legno. In inverno l’acqua calda era quella fornita dalla cucina economica (stufa a legna, la più grande invenzione del dopoguerra) che oltre a produrre acqua calda, permetteva di asciugare i panni; vi si cucinava la pasta ed era dotata anche di un forno, cosicché si poteva riscaldare tutto l’ambiente e il carbone prodotto si usava per riscaldare il letto (tramite il prete con la monaca). I materassi erano fatti con le foglie di granturco e nel migliore dei casi di «crina» (crine, fibre vegetali) e solo i genitori e gli anziani (e non tutti) possedevano materassi di lana; le lenzuola erano talmente ruvide e spesse da sembrare una grattugia.

L’unico televisore presente nel borgo era quello dell’Osteria Grippina della famiglia Barzetti, con annesi generi alimentari e biliardo, dove noi ragazzi andavamo a vedere i programmi trasmessi dalla televisione prima di cena. A quel tempo venivano trasmessi i telefilm di «Lessi», «Rin Tin-Tin» e «Penna di Falco»; tuttavia c’era un rischio: se si ritardava per la cena in famiglia erano veri e propri guai. Qualche volta, avevamo il permesso, dopo cena, di uscire per andare a vedere le partite di calcio. Generalmente i nostri genitori, ad una certa ora, e precisamente fra le 18.30 e le 19.00, iniziavano ad emettere forti ed acuti fischi, ognuno a modo suo, e quasi coralmente. Questo era l’avvertimento, il monito per il quale dovevamo rincasare in tutta fretta poiché in caso di ritardo erano botte … e di quelle buone!

Nel periodo invernale era possibile vedere film nel cinema parrocchiale, che fungeva anche da teatro. Un anno, ricordo, era il diciassette di gennaio, giorno della festa di Sant’Antonio, quasi tutto il paese era al cinema per vedere i Dieci Comandamenti, film interminabile; quando entrammo verso le quattordici e trenta del pomeriggio, il tempo non era male, faceva sì freddo, ma il cielo non era scuro (allora non c’erano ancora le previsioni metereologiche); poi ad un certo punto, tra il decimo e l’undicesimo tempo, entrò in fretta e furia la nonna di Mosci Giorgio, trafelata e preoccupatissima per suo nipote, gridando che fuori c’era più di mezzo metro di neve. Nessuno ci credette; uscimmo tutti a vedere e sbalordimmo alla vista di tanta neve caduta in così breve tempo. I più anziani commentarono con il proverbio che recitava «Sant’Antògn da la barba bianca met la ‘nev ‘ndò c’manca». Per noi ragazzi fu una grande festa perché per una settimana non saremmo andati a scuola.

Roncitelli sotto la neve

A scuola si andava vestiti con il grembiule azzurro i maschi e rosa le femmine. Un giorno ci andai senza essermi prima pettinato; la maestra Borgacci che era molto severa e spesso per le nostre esuberanze ci puniva facendoci stare in ginocchio dietro la lavagna, quel giorno mi rimandò a casa appositamente a pettinarmi. Bisogna sapere che a quel tempo gli adulti usavano la brillantina, ma io non disponendone, quel giorno al suo posto usai l’olio di oliva. Non l’avessi mai fatto! Mentre ritornavo a scuola avevo sì i capelli lisci ma l’olio mi colava da tutte le parti e i compagni non finivano più di sbeffeggiarmi.

La mattina, di norma prima di andare a scuola, passavo quasi sempre a casa di Maurizio detto Picchio che abitava lungo la strada ed era sempre in ritardo perché la nonna gli preparava per colazione una scodella di latte piena di pane, che sarebbe bastata per cinque persone. A scuola si svolgevano tante attività tra cui anche quella di musica; non avendo alcun strumento musicale a disposizione, la lezione si basava solamente sul canto di conseguenza io e il Picchio (quest’ultimo per di più balbuziente), che eravamo i più stonati, venivamo mandati fuori dall’aula oppure in giardino. Per scrivere si usava la penna con l’inchiostro ed il calamaio che era inserito nel banco.
Il grembiule (e d’altronde le mani) erano così perennemente imbrattate di inchiostro. In primavera, con la bella stagione, facevamo delle passeggiate fino alla scuola della Rondolina dove lungo la strada le maestre ci invitavano a raccogliere gli asparagi che poi si portavano a casa loro.

Le gite in pullman rispettavano sempre lo stesso itinerario che prevedeva la visita al monumento dei Caduti di Castelfidardo, la casa di Giacomo Leopardi a Recanati, la Basilica di Loreto e, per farci contenti, ci portavano poi a vedere la statua di «Pinocchio» ad Ancona. In quel periodo, a Natale, si usava offrire alle maestre – come anche a Pasqua e alla fine della scuola – doni quali uova, formaggi, liquori e altri omaggi secondo le possibilità finanziare di ogni famiglia. Vi erano però alcune famiglie, ad esempio i Barzetti e i Pettinari, che possedevano un negozio e così portavano alle maestre i regali più belli, mentre i nostri omaggi erano sempre le uova e i formaggi. Un giorno Tullio Barzetti mi «canzonò» perché io non avevo nulla da regalare; invidioso nei sui confronti mi infuriai talmente tanto da strappargli dalle mani la bottiglia di liquore mandandola a terra in frantumi. A proposito di Tullio, anche se era sempre difeso dalla sorella Paola (detta Mina), ricordo che gli feci pure due buchi in testa: una volta, mentre giocavamo gli tirai infatti una boccia sul capo e in un’altra occasione gli detti una spinta facendolo cadere dal gradino del suo negozio, perché non voleva che io passassi di lì. Imo Carboni portò un giorno alla maestra una forma di formaggio. Lei disse però che non gli avrebbe assicurato comunque la promozione. Alla fine della lezione Imo non fece altro che riprendersi tranquillamente il suo «dono» per riportarselo a casa.


Via Borgo San Giovanni dopo la realizzazione dei marciapiedi e l’asfaltatura della strada.

Ai quei tempi annualmente arrivava il pullman azzurro della schermografia; parcheggiava davanti alla scuola e noi ad uno ad uno in fila ordinati entravamo nell’automezzo un poco intimiditi per effettuare i «raggi al torace» e le vaccinazioni di rito. I giocattoli venivano costruiti da noi stessi con l’aiuto dei nostri genitori e dei nonni. Quelli più in voga consistevano in trattori agricoli ricavati dal legno con tanto di ruote o con cingoli trainanti aratri ed equipaggiati con ruspa o anche adattati a trebbiatrice. C’erano poi le armi come la cerbottana, il calza palle (fatto con un ramo della pianta del sambuco cui si toglieva il midollo; in esso veniva poi inserito un altro ramo sempre in legno, che fungendo da stantuffo imprimeva una notevole spinta sparando così palline, fatte con la canapa, anche ad una notevole distanza).

Similmente si modellavano finte spade e scudi. Come cavallo si usava un tipo di canna la cui radice, essendo un grosso tubero, somigliava alla testa di un cavallo. Si costruivano fucili sempre in legno ed archi di due tipi: l’uno fatto con il ramo del salice per lanciare una freccia di canna, con inserito un chiodo nella punta; l’altro fatto con le stecche di ombrello (molto pericoloso!) perché la freccia che si lanciava era di ferro ed appuntita, tant’è che una volta in una «battaglia» per la conquista del «castello», io colpii ad una gamba Valter Schiaroli. La fionda, altro oggetto pericoloso, la possedevano quasi tutti. Ci dividevamo in due squadre per poi darci battaglia intorno al «lago di Moroni» e lungo il viottolo che portava alla fonte di Sartin, dove d’estate facevamo il bagno.

Le teste bucate erano tante poiché usavamo i sassi e le palline, soprattutto quelle di terracotta in quanto costavano di meno rispetto a quelle di vetro. Di teste né ho bucate tante, ma purtroppo anch’io una volta sono stato colpito da Giancarlo Carboni. Non si andava certo dal dottore; solo una volta ci si recò (accompagnato dalla sorella) Giacomo di Carboni perché proprio io gli avevo fatto un bel buco. Sempre con la fionda si andava a caccia di bisce, ramarri e lucertole che poi mettevamo in bella vista sopra il tetto del lavatoio.

Vi erano poi giochi più tranquilli, come quello di spingere con una canna o con un bastone un cerchio di una ruota di bicicletta; così pure la corsa dei carrettini costruiti da noi stessi usando ruote di passeggini o semplici cuscinetti. Le gare venivano condotte lungo la strada centrale del borgo che in quel tempo era ancora imbrecciata; le cadute erano quindi frequenti con il risultato di grosse escoriazioni in tutto il corpo. Si giocava poi a «castelletto» con le palline sia di vetro che di terra cotta e vinceva tutte le palline del castelletto quello chi riusciva a colpirlo per primo.

Le corse in bicicletta avvenivano intorno al castello e durante una di queste gare con Marconi detto Baldo mentre scendevamo a tutta velocità lungo la discesa, curvai un po’ troppo largo e centrai così una «Fiat Millecento», ferma sulla curva nella ruota anteriore. Feci un bel volo sopra l’automobile per poi ritrovarmi accanto ai gradini dell’Ufficio Postale. Restai sorprendentemente incolume ma con il risultato di aver distrutto la bicicletta, peraltro di mia madre. Bastian di Carboni che assistette a tutta la scena, dopo che mi ero rialzato, e constatato che l’automobile non aveva subito danni, mi diede un calcio nel sedere e aggiunse «così impari ad andar più piano».

Come walkie talkie (ovviamente allora non esistevano telefonini) si usavano due barattoli collegati con uno spago e si comunicava ad una distanza di circa dieci metri. Ci costruivamo perfino i fuochi d’artificio usando come combustibile il carburo: lo scioglievamo in acqua con un piccolo foro praticato a terra, subito ricoperto da un barattolo dotato di un forellino in alto per trattenere il più possibile il gas che si formava. Avevamo così il tempo di allontanarci e poi, tramite una miccia posta in cima ad una canna, si appiccava il fuoco. Il gas prodotto a quel punto esplodeva proiettando il barattolo ad una altezza di circa venti metri. Vi erano poi i giochi da femminucce come la campana, filo filotto, il fazzoletto. Come scivolo si usava il muretto a fianco dell’arco del Castello dove Tullio, che era solito rubare caramelle e cioccolatini nel negozio della nonna Grippina, li distribuiva un po’ a tutti. C’era poi Imo che con un cioccolatino si mangiava una fetta di pane da mezzo chilo. Un giorno, Leonello e Giancarlo ebbero la pazza idea di incendiare per vendetta la coda del gatto di Peppetta, il falegname, per aver divorato un «torgagiarro» (un genere di tordo) di loro proprietà. Il povero animale si dette alla fuga così velocemente che attraversò la bottega di Peppetta senza che la coda prendesse fuoco.


L’Arco ingresso al Castello senza più la torre campanaria demolita dal terremoto

In quegli anni gli inverni erano veramente freddi e di neve ne faceva tanta. Spesso il paese rimaneva così isolato per molti giorni in quanto le due strade di accesso, sia quella della Cannella che quella di Scapezzano, venivano bloccate dai cosiddetti «rifili» che il vento andava formando all’altezza della casa di Rocco e in cima alla salita. La prima strada ad essere ogniqualvolta liberata dalla neve era quella della Cannella ma noi per impedire che la corriera che trasportava le maestre potesse passare, ributtavamo ben tosto la neve sulla strada. Il monte di «Giacomella» costituiva la nostra pista da sci. Con le slitte sempre fatte da noi o con i sacchi di plastica riempiti con la paglia si scendeva giù per il monte. Non avevamo tute da sci o giacche a vento e doposci bensì solo pantaloncini corti, un maglione, calzettoni e un paio di scarponi.

Sempre durante il periodo della neve posizionavamo in più punti del paese le famose trappole per prendere gli uccellini stando sempre attenti che il guardiacaccia Girini non ci scoprisse. A carnevale le maschere preferite erano quelle dei cow-boy e degli indiani e si andava nelle case di paese e in campagna dove ci offrivano uova, salsicce e dolci che poi ci dividevamo tra noi.

Un giorno io, il Picchio e Baldo arrivammo quasi nei pressi di Scapezzano e ad un certo punto non vedendo più l’abitato di Roncitelli scoppiai a piangere convinto di esserci persi; ma il Picchio mi confortò subito dicendomi «guarda che se sali sul ciglio della strada Roncitelli la vedi» … e così fu.

A primavera nel periodo di riproduzione degli uccelli si andava alla ricerca di nidi di merli, tordi e cardellini che prendevamo quando erano piccoli ma pur sempre già in grado di essere nutriti e svezzati da noi. Gli somministravamo mangime per polli nonché insetti e poi li vendevamo ai cacciatori che li utilizzavano come richiamo oppure li tenevamo noi in gabbia. A Roncitelli però c’era il temibile guardiacaccia Girini che controllava tutto e tutti con il suo binocolo e non gli sfuggiva niente. Un giorno mentre con Moreno (Ivano Ciarloni) si andava a prendere una nidiata di merli a casa di Santolini, lungo la strada notammo un nido di passeri di montagna su un albero, guarda caso vicino alla casa del guardiacaccia. Certi che in quel momento lui non si trovasse in casa, decidemmo di vedere se ci fosse stata la possibilità di prendere i piccoli. Moreno salì sulla pianta, arrivò al nido e cominciò a buttarmi giù i nidiacei che io immediatamente nascosi in un buco della scarpata. Ad un tratto vidi un’ombra e alzai gli occhi. In piedi, sul ciglio della strada c’era proprio il Girini che minacciosamente esclamò: Quanti sono? Avendolo riconosciuto risposi subito: due. Però mentivo perché erano quattro; mi disse allora di portarli su da lui. Nel frattempo Moreno, che aveva assistito alla scena, scese dall’albero in modo goffo e ridicolo scivolando giù dal tronco fino sbattere il sedere per terra. A quel punto Girini ci disse che purtroppo ci doveva fare una multa di ottantamila lire (basti pensare che allora mio padre guadagnava sessantamila lire al mese). Ci cascò il mondo addosso! A quel punto Moreno cominciò a piangere in mezzo alla strada mentre io pregavo il Girini di non appiopparci la multa ricordandogli supplichevolmente che anche lui aveva dei figli. Mi rispose dicendo che aveva due femmine, ma poi ebbe comunque pietà e non ci fece la multa. Ad ogni modo, trascorsi alcuni giorni, tornammo a casa di Santolini per prendere i merli.

Un giorno, lungo il viottolo che portava alla fonte di Sartin, individuammo (io e Imo) il nido di un gufo all’interno del fusto di un tronco d’albero; però avemmo paura di prendere il rapace perché nessuno di noi aveva il coraggio di infilare la mano dentro il foro per timore che ci fosse magari anche qualche serpente e così chiedemmo aiuto alla nonna di Imo. Lei senza difficoltà infilò la mano e tirò fuori il gufo. Tutti contenti legammo al collo del volatile uno spago per farlo così volare trattenuto lungo la strada principale del paese; il figlio di Boccolucci il falegname ci offrì trenta palline di vetro in cambio del gufo e noi accettammo il baratto ma durante una di quelle corse con l’animale al laccio l’uccello finì col liberarsi e se né volò via.

Sempre a primavera e durante l’estate si andava a rubare nei campi ogni tipo di frutta. Vi erano alcuni contadini da noi preferiti per il tipo di coltivazione come il Morini per i cocomeri e il Gagiottini dove un giorno io e Moreno (che abitava proprio vicino al Gagiottini) andammo a rubare un’anguria. Purtroppo il vecchio ci scoprì e ci rincorse con la frusta per il campo. Durante la corsa io, con il cocomero ben stretto tra braccia, persi una ciabatta ma non mi fermai. Credo che la ciabatta sia ancora lì ma il cocomero lo consumammo comunque. In assoluto le migliori pesche che abbia mai mangiato sono state quelle di Sartini che però, per poterle rubare, eravamo costretti a fare dei veri e propri appostamenti e solo quando eravamo sicuri che Sartini non ci fosse uscivamo dal nascondiglio, raccoglievamo due o tre pesche e via di corsa perché Sartin ci rincorreva anche lui con la frusta. Gradivamo altresì le ciliegie dal frutteto di Pambianchi. Tuttavia, se avevamo intenzione di gustare qualsiasi altro tipo di prelibatezza senza problemi di sorta si andava a casa del padre di Marconi Ivaldo dove era possibile, nei mesi invernali, mangiare tutta la varietà di frutti immagazzinati nella sua soffitta già ricolma di ogni ben di Dio: mandorle, noci, uva, nespole; le mele invece erano poste curiosamente sopra un’adatta biforcazione del tronco di un albero sulla quale si disponeva una certa quantità di paglia dove deporre tali frutti per meglio conservarli: la pianta suddetta era detta «il melaro».

Il centro di tutti i nostri giochi era la piazza davanti alla Chiesa di San Giovanni e al monumento dei Caduti. Qui si svolgevano le grandi partite di calcio che molte volte finivano in «cagnara». Si giocava nello spazio compreso fra tra i gradini della Chiesa Parrocchiale fino all’angolo delle mura del castello. Il campo era costituito semplicemente dalla strada imbrecciata e non usavamo di certo le scarpe da tennis né tantomeno quelle da calcio. Si giocava con le ciabatte o addirittura scalzi ed era una vera battaglia. Chi stava però con il prete Don Aurelio vinceva quasi sempre perché lui giocava da portiere e indossava la tunica e bastava cosi che allargasse le gambe per coprire quasi tutta l’area della porta. In seguito però il prete Don Querino fece costruire il circolo ACLI con un vero e proprio piccolo campo da calcio cosicché a tutti noi fu concesso finalmente di giocare in modo agevole.


Chiesa Parrocchiale dedicata a San Giovanni, citata per la prima volta nel 1139 in un documento; e monumento ai caduti della guerra del 15/18.

Il paese era stato diviso da noi in quattro contrade: la Rondolina attribuita alle famiglie di Tarsi Mario e Urbinelli Paolo; il Bastardo alle famiglie Sagrati Luciano e Renzo, Giacomelli Enzo, Magini Fabio, Santolini Mario; la Sicilia alle famiglie Campolucci Cesare, Ballanti Luciano, Carboni Giancarlo e Imo; il Centro Storico alle famiglie Barzetti Gettulio, Santini (detto Picchio).

Quando si andava a giocare in trasferta «la Sicilia» e il «Centro Storico» si riunivano in un’unica squadra poiché non si raggiungeva un numero sufficiente di giocatori. La partita in trasferta contro la Rondolina si svolgeva sull’aia di Tarsi. Erano partite interminabili che finivano addirittura 20 a 15 e valeva la regola che ogni tre calci d’angolo si tirava poi un rigore. Di fatto consistevano in vere e proprie battaglie. Quelle più importanti furono giocate in trasferta sull’aia di Ferretti (Scapezzano) e contro il Vallone sull’ansa del fiume Misa (Cannella). Qui però si sprecava tanto tempo per il recupero dei palloni che finivano regolarmente nel fiume.

Durante il periodo della trebbiatura noi ragazzi del paese andavamo ad aiutare i contadini soprattutto per mangiare l’oca arrosto con le patate e la «conditella» (non c’è confronto con quella che consumiamo oggi!). Si beveva poi la limonata fatta con l’acqua fresca del pozzo. La trebbiatura in quel tempo era una vera festa perché univa sia i contadini che i paesani in un’unica famiglia in quanto tutti si aiutavano a vicenda e serviva molta manodopera perché il lavoro era tutto manuale. Si iniziava con la mietitura – taglio del grano a mezzo di falcetto o con la «falcenara» con archetto (per raccogliere meglio il grano) oppure con la falciatrice trainata dalle mucche. Seguiva la raccolta del grano falciato legato a mo’ di fascina (i cosiddetti covi) dopodiché si accatastava il tutto formando un covone. Terminata la mietitura, tramite i «birocci» marchigiani pitturati caratteristicamente e trainati dalle mucche (sempre chiamate «Galantì» e «Faurì»), si trasportavano i covoni fino sull’aia. Qui venivano accatastati (cosiddetto barcon) in modo tale da creare uno spazio sufficiente per il posizionamento del trattore, della trebbiatrice e dei due elevatori uno per la paglia e uno per la pula. Noi ragazzi ovviamente eravamo destinati sempre a respirare dove c’era la pula con la giustificazione che lì era minore il pericolo di infortunarsi con i macchinari in movimento. Per fare tutto ciò occorreva molto tempo e tanta pazienza poiché non tutte le aie si prestavano a tali operazioni per via della limitata superficie o di un infelice posizionamento. Io come tanti altri ragazzi del paese andavo con mia madre e mia nonna a «spigolare» cioè a raccogliere le spighe rimaste sul campo per poi portarle a casa e ricavarci il grano per farci la farina. Quando accompagnavo mia madre a lavorare nei campi la giornata iniziava molto presto. Si arrivava a casa del contadino alle ore sei e si andava subito sul campo ad effettuare i lavori di zappatura, vangatura, falciatura, eccetera; tutti lavori manuali con l’aiuto in alcuni casi delle vacche, in quanto i trattori erano rarissimi e solo le aziende agricole più grandi se li potevano permettere.


Mietitura negli anni ’50 del Novecento.

C’era così un gran dispendio di energie per il lavoro duro e molto faticoso nei campi; per questo motivo l’alimentazione giornaliera era abbastanza sostanziosa; mi ricordo che facevano molto presto una prima colazione con latte e pane e poi una seconda colazione direttamente sul campo, con frittata, lonza, pane e vino. Verso mezzogiorno pranzavano; c’era quindi il ritorno nei campi; alle ore 17,30 circa “Venora” si faceva la merenda e infine si terminava la giornata con la cena. Ma non si creda che fossero obesi! Dopo la trebbiatura nel mese di agosto si raccoglieva il granoturco che veniva portato nell’aia; poi con il fresco della sera ci si radunava intorno al raccolto, per procedere alla «scannaffoiata» consistente nel togliere le foglie e liberare così la pannocchia del granturco. Ognuno aveva una storia da raccontare: da quella del «passaggio del fronte» a Roncitelli, durante la seconda guerra mondiale, fino ai semplici racconti di vita quotidiana del tempo. Allora non esistevano di certo i supermercati con miriadi di confezioni di prodotti. Si andava nei negozietti di generi alimentari e tutto si acquistava in forma prevalentemente sfusa: ad esempio due etti di carne bovina (che fra l’altro si consumava non più di una volta al mese), due etti di pasta sfusa che veniva tenuta dal negoziante in appositi cassettini e che, prelevata con le cosiddette «sessole» ed avvolta su carta gialla, veniva così consegnata al cliente. Il tonno, sempre sfuso, confezionato invece era venduto con carta «oliata» come tanti altri generi alimentari grassi (insaccati, formaggi, ecc). I soldi in tasca a noi ragazzi erano ben pochi. Basti pensare che per una partita a biliardino («biribis») ci volevano venti lire; così per arrotondare si andava per campi alla ricerca di pezzi di ferro-schegge di proiettili dei cannoni per poi venderli al ferraiolo.

Peraltro nel mese di ottobre andavamo a raccogliere le ghiande, ma c’era un problema perché i contadini erano tutt’altro che consenzienti e ci sgridavano (oggi non le raccoglie più nessuno). Ricordo che un anno feci incetta di più di un quintale di ghiande che poi cedetti a Sebastiano Carboni per diecimila lire. A Natale si andava a prendere l’erba «vellutina» nella Selva di Venarin per poi venderla in paese a cinquecento lire al cesto; la prima raccolta veniva offerta gratis per il presepe della Chiesa. Racimolavamo soldi anche facendo i chierichetti. Don Quirino, a me e al Picchio, ci dava sessanta lire per servire la messa che veniva celebrata di mattino, alle sei, prima di andare a scuola!
La tariffa era diversa quando c’era un funerale, perché se si andava a casa del defunto per poi accompagnarlo in Chiesa, e successivamente al cimitero, essa aumentava fino a trecento lire. Un giorno mentre accompagnavamo una salma al camposanto sbucò a forte velocità dalla curva di Quattrocchi quel tipo di automobilina detta «giardinetta» condotta da Fronzi (commerciante di articoli casalinghi di Roncitelli).

Quel trabiccolo piombò in mezzo alle due file di donne in testa al corteo che procedevano ai lati della strada, mentre al centro di questa eravamo noi chierichetti a sostenere la croce, con accanto il prete e il sacrestano; subito dietro il carro funebre c’erano i familiari e i conoscenti. Il Fronzi tentò di frenare, ma sulla strada di breccia ciò risultò molto problematico tanto che stette per investire noi che eravamo al centro del percorso. Per nostra fortuna Dino, il sacrestano, vista la situazione ci spinse violentemente a lato della strada e così finimmo scaraventati in mezzo alle ortiche e ai rovi. Fortunatamente non successe niente di grave ma lo spavento fu tanto.

Terminate le «Elementari» e indossati per la prima volta i pantaloni lunghi, iniziammo una nuova avventura frequentando le Scuole Medie di Senigallia e diventammo così … «grandi».

Copertina del libro
Roncitelli
di Anna Tamanti Fronzi
(per g. c. della Biblioteca Antonelliana di Senigallia).

Ho inserito l’immagine della copertina del libro Roncitelli, scritto da Anna Tamanti Fronzi, della quale ho un caro ricordo per essere stata la mia professoressa di Lettere e Storia alla Scuola Media «Fagnani» di Senigallia.

Ringraziamenti

Si ringrazia il dottor Mauro Anselmo per i preziosi consigli. Un particolare ringraziamento va al signor Gianni Marconi per aver fornito la documentazione fotografica che ha arricchito queste memorie.

5 thoughts on “L’anima di Roncitelli

  1. Questo racconto è un tuffo nel passato che lascia sensazioni dolcissime. Mi ha emozionato. Un grazie di cuore all’autore. Marina

  2. Caro Cesare , un bell’ insieme di tanti ricordi . Quando poi divenuti ” grandi ” arrivaste a Senigallia avemmo la fortuna di ritrovarci nella stessa classe , la I° B , della Fagnani …..ed anche di questo avremmo di che raccontare

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