Senigallia fu paese della fortuna e dell’allegria

 

 

 Lettera di Giovanni Eroli

AL SIGNOR MARCHESE ALBERTO EROLI, SEGRETARIO NEL MINISTERO DELLE FINANZE 

                                                                                                                                          Senigallia 21 luglio 1890 

 

 

 

Carissimo parente, Voi desiderate, che vi narri qualche cosa della tanto celebre antica fiera di cotesto luogo, ove ora dimoro, la quale è presentemente ridotta a vile e umile mercato, da non ammettere alcun paragone con quella splendidissima passata, io la godetti nella sua integrità e pienezza dal 1823 a tutto il 31, ossia gli otto anni, che fui alunno nel seminario-convitto, animato e restaurato dal benefico, e generalmente compianto cardinal vescovo Testaferrata, il quale amico, da tempo, della mia famiglia, mi volle seco, unitamente al mio defunto fratello Raffaele, per bene educarci ed istruirci. E mi godetti la fiera in quelli anni, non solo girovagando per le strade, e pei negozi; ma anche dalle finestre del nominato luogo, le quali, nella mia camerata, guardavano, come guardano ancora, il misero fiume Misa, e la via del Taglio, per esso a destra costeggiata; la qual via, in tempo di fiera, mostravasi per una delle più piene di mercatanzie, di mercanti e di popolo. 

Non posso fare a meno pertanto di prontamente soddisfare il vostro lodevole desiderio; e procurerò, che nel mio breve racconto sia tutta la verità ed esattezza possibile. Se voi dunque mi seguirete in fantasia, vi condurrò ai tempi antichi, e in presenza talvolta della stessa fiera, perché ve la godiate in qualche modo, e in qualche parte, pur voi, ma non come la godetti io stesso in persona. 

La città in tempo di Fiera

Fuor di fiera avreste veduto la città tranquilla, con iscarsa popolazione e scarso commercio, per cui abitualmente smorta e malinconica. Ma pochi giorni prima della fiera, essa, quasi risvegliandosi da lungo sonno, e mutato aspetto, incominciava a sentirsi più animata, più vigorosa, e a muoversi gagliardamente, perché ognuno si brigava, si affannava, si arrabattava e dava attorno per acconciare, ordinare e allestire le abitazioni, i negozi e altro, per ricevere agiatamente, e con la dovuta convenienza, merci, negozianti e altri forastieri, sui quali facevano assegnamento di grande guadagno, rincarendo le pigioni e le cibarie. Contavano i più che futile ritratto in quei giorni felici bastasse loro a campare a ufo almeno mezz’anno, se non più oltre. 

Intanto falegnami, e fabbri, e muratori, e facchini, serve, servitori, osti, ostesse, albergatori, ogni ceto in somma di persone studiano che tutte cose sieno bene acconce e pronte pel tempo stabilito. 

Ecco là, lungo il Taglio, dalla nuda parte che tocca fiume, già sorti in un attimo molti casotti di legno, per ricevere le merci di minor conto; ed ecco tutto il porticato, che sta incontro ad essi, diviso transversalmente a pareti di legno, per ridur gli archi a botteghe. E i casotti di tavole incontransi a passi anco per le piazze, pel corso e in altre vie. Ma queste vedrete in breve coperte in alto a tendoni di grossa tela per riparo del cocente sole; quantunque in alcune ore del giorno sotto essi il caldo sia in guisa da far grondare largo sudore. Soltanto si respira un poco quando, mezz’ora innanzi al tramonto del sole, apronsi essi alla larga, e fra giorno si inacquano le strade con la botte, accompagnata da un mazziere municipale vestito a livrea. 

Il molo, e il mare, a lungo tratto, sono già pieni di barche e marinai, portanti varie merci da vari paesi vicini o lontani; e carri, carrette, cariole, vetturali e facchini le trasportano affannosamente e sollecitamente al luogo assegnato. L’ingorda indiscreta finanza non vi ficca dentro né occhi, né naso, né forino [cosi è nominato dai finanzieri quel ferro sottile, alto circa un metro, puntato da piedi, e piegato da capo a tondo schiacciato, per formare il manico, col qual ferro forano e sacchi e ceste e balle di paglia o fieno, o altro, per conoscere se siavi nulla dentro di contrabando] perché esse godono il porto franco. Ma, se la finanza perde nell’introito, guadagna nell’uscita; quantunque molte sieno le frodi stutamente fatte da uomini e donne. 

Bisognerebbe vedere dentro le case le grandi faccende! Come tutto si ripulisca e si assesti con nuovo ordine, per degnamente alloggiare i forastieri, questi polli grassi da pelare; e son pelati davvero ben bene col caro delle pigioni e dei viveri, che crescono fuor dell’ordinario e a dismisura. Essi padroni di casa, affittuari, lasciando le camere di loro uso giornaliero, si restringono, si rincantucciano in certi bucigattoli da far compassione e tristezza al sol guardarli; né manca chi vada ad abitare su per le soffitte co’ sorci, o nei pianterreni o cucine coi scardafoni e bacherozzoli. Né, per guadagnare al possibile, guardasi agli stenti, alle pene, ai disagi, e, pertanto, al pericolo della salute in una stagione non benigna, e in camere, ove manca l’aria da respirare e la luce da vedere. 

 

Mercanti in fiera

Ma siamo giunti al 20 luglio, al lieto desiderato giorno dell’ apertura della fiera, annunziata a mezzanotte del diecinove, in egual modo di altre solennità, con lo sparo del cannone:  sparo, che rimbomba all’aria, e fa eco sonoro e gradito in tutti i cuori, e li slarga alla gioia, all’allegria, alla cupidigia del guadagno, al piacere del godimento. 

Ne’ primi dì non sentesi gran rumore, né vedesi gran folla; ma, procedendo innanzi specialmente ne’ dì festivi, non potete immaginare che cosa diventino le vie, ov’é il grosso della fiera, e in singolar modo le due del Corso e del Taglio. La gente a migliaia, e così stipata, che bisogna aiutarsi con le mani, co’ gomiti e co’ fianchi per poter camminare un po’ spedito; ma gli urtoni, le spinte, le pistature ai piedi e alli calcagni non ve ne toccan poche. Il chiasso poi, il tumulto , il baccano sono straordinari, grandissimi. Allo stroppiccio e calpestìo de’ piedi, alle voci alte e fioche della folle, alle grida e agli urli indiscreti dei moltiplici venditori ambulanti o staziotiarii, al cigolìo delle ruote delle carrette a mano e delle cariole che trasportan merci continuamente per tutto, si unisce il suon de’ tamburi e tamburelli, de’ fischi e pifferi, degli organetti e trombette, delle campane e campanelli con altri striduli disarmonici istrumenti, comprati e provati dagli impertinenti e chiassosi ragazzi; cotalchè nelle vie principali è una tempesta di mare, un casa del diavolo, e, dirò pure, una nuova Torre di Babele, stante la varietà e confusione delle lingue, poiché da ogni parte del mondo concorrono persone a questo grandioso mercato. E il greco, il turco, l’indiano, il cinese , il giapponese, l’arabo ecc. vanno uniti a tutte le schiatte degli europei, sì che dentro la piccola Senigallia si racchiudon quasi le lingue e i dialetti del mondo intero. Ma, quantunque lo strepito urti ed offenda il timpano degli orecchi, pure niuno vi bada, perché la curiosità, o la voglia di passar l’ozio e divertirsi, la smania dell’interesse nell’acquistare o vendere superano qualunque ostacolo, qualunque molestia, qualunque cosa ingrata. 

Siamo ai 27 di luglio, e già il mercato presentasi pieno ed animatissimo. Oh quanta roba, quanta roba per tutto! È proprio una meraviglia. I così detti grossisti ne’ primi tre giorni spaccian subito loro merci, perciò, chiusa bottega, sen vanno, allegri e contenti per la fortuna avuta, passeggiando con la testa alta per la fiera; ma sempre meditando nuovi guadagni, e far monopolio (proibito dalle leggi), affinché la somma già ritratta non resti senza frutto. E questi grossisti poteansi anche dire grossissimi, perchè alcuni tenean, non tre, non quattro botteghe piene della loro merce, ma una contrada intera di venti e trenta stanze. E quattro di questi grossissimi, un anno, spacciarono 35.000 barili di sarde, e altrettante balle di baccalà e stoccafisso; né vi racconto frottole, perché i vecchi viventi senigalliesi ponno testimoniare la mia assertiva. Né i venditori al minuto lagnansi dei loro affari, che la provvidenza piove sopra tutti. Per darvi a conoscere, presso a poco, l’utile de’ negozianti in questo tempo, racconterovvi, che io un anno feci relazione con due di loro; il primo milanese, spacciatore al minuto di fettucce e nastri da donna, bellissimi di seta e di nuova moda; il secondo germano, venditore all’ingrosso di giocattoli di ogni specie. Interrogati da me, che somma avean incassata nella vendita delle merci, il primo risposemi scudi 6000; il secondo 20,000. Che vi pare? Se le fettucce e i giocattoli poteron tanto, immaginate il guadagno di coloro che dieron via cose di più entità e valore!

Immaginate i denari entrati ne’ negozi di roba di moda, e specialmente in quello dell’ inglese Hinson, il quale stava sempre nell’ultimo colonnato verso il molo, tra il caffè grande ed un libraio veneziano, che non mancava mai. Il detto Hinson portava ogn’anno oltre un milione e mezzo di capitale in oggetti i più nuovi, i più vari, i più fini, i più eleganti e preziosi di chincaglieria bigiotteria di metalli nobilissimi di belle arti e di altra specie, di ricche ben foggiate gioje, e altro che taccio. A lui non potean far contrasto, per la ricchezza, che i ricchi orafi e orologiari della Svizzera, della Germania, della Francia, e le magnifiche drapperie degli Asiatici, e i recamati vestiari, e le armi intarsiate in avorio argento e oro dei Dalmati e Arabi. Ma niuna maraviglia del gran guadagno altrui, mentre a questa fiera, più celebre di quella di Lipsia, e Liverpol, concorreva gente, come già dissi, di ogni nazione o per vendere, o per comprare e provveder roba necessaria ai propri paesi, non costumando allora i tanto commodi viaggiatori delle case commerciali. Laonde gli scudi correvano a milioni, non mancando nel mercato nulla che facesse al proprio gusto, al proprio bisogno, e tutto in copia stragrande. Al concorso della gente rispondeva il concorso della merce, e la varietà di queste alla varietà delle nazioni venute. Dove osservi libri, pitture comici, stampe e scolture, dove gioje e altri oggetti preziosi. Qua lini, cotoni, lane o grezze o tessute; là pelli, pellicce, cordami, magazzini di ferro, acciajo e rame. Lì un canto seterie, majoliche e porcellane fine o rozze, in altro vestiarii confezionati per uomo e per donna, attrezzi per ogni mestiere, droghe, zuccheri, caffè, cacao, medicinali confetture senza numero, e vini e spiriti schietti i più rari e squisiti; in somma ogni ben di Dio. Era la fiera di allora una mostra gigantesca universale, e, per dirla, alla moderna, un bazzarro mondiale senza pari. Dove mai trovereste oggi, come allora, volendo parlare soltanto dei vini e degli spiriti, che piacciono generalmente, il vero vin di Cipro, portato da’ greci in gentili carratelli ? il bordò, lo sciampagna, la malaga, il madera, messi in vendita da’ francesi e spagnoli? Il marsala, la lacrima Christi degli spacciatori napoletani? il rhum di Giammaica ecc. ecc.? Ora la frode, non conosciuta prima in queste cose, guasta tutto, con rimessa pure della salute, perché nelle nuove composizioni, usate per ottener con l’arte ciò che la natura ne concesse, adoprasi anco il veleno, senza rispetto alla carità del prossimo, per cui bisogna dire che siamo ben crudeli ed egoisti all’ultimo segno. 

In giorni poi determinati della fiera avean luogo, come al presente, alcuni distinti mercati di bestiame, ove notai qual cosa particolare (ora mancante) branchi di cavalli, di schiavonìa, detti per ciò Schiavetti, i quali in piccolo e ben formato corpo racchiudono grandissimo spirito e brio: corrono poi come vento. 

 

Curiosità

Giriamo un po’ attorno per le strade e per le piazze, affinchè veggiamo le tante curiosità e rarità che concorrono in questa occasione Guardate qui: un gabinetto di figure in cera! Entriamo, che con venti baiocchi ci leveremo la curiosità, Belle quelle statue semoventi ed eseguite con molt’arte e naturalezza! Ma io amo piuttosto entrare dove sono gli oggetti anatomici… Oh come bene eseguiti! Io non conoscea punto l’interno del nostro corpo, e qui lo veggo a meraviglia. Che vi pare del parto della donna? e come il feto stia dentro l’utero? Guardate là quanti mostri di natura! Ma il suono di una stridula tromba ci avvisa di altre meraviglie. Usciamo dunque di qui, per andarle ad ammirare una grandiosa mostra di uccelli imbalsamati delle cinque parti del mondo! Vedeste mai la simile? Io no certo. L’estrema piccolezza di alcuni, e la somma grandezza di altri, come la schietta bian chezza loro e varietà di colori incantano. Ammirate tutti l’uccello del paradiso, e quello mosca. E non sono forse di stupenda vaghezza il crisolito, il rubino, il topazio, l’amatista? Brillano per via della luce come vi fosse il fondo d’oro. Più belli di questi è difficile trovarli. Ma, via di qua, che il tempo incalza, e voglio che vediamo gli Automi di Droz che stanno di faccia all’ultimo porticato, presso il ponte del fiume. È cosa nuova, e mi dicono che merita esser veduta. Seguitemi, ed entriamo.

Vedete quei due finti ragazzetti come ben disegnano e compongon nomi, e fanno i conti… È poi singolare il soffio che diedero con la loro bocca a un bioccolo di bambagia per mandarlo in aria, e così dare a conoscere che fu il lavoro compiuto. Ma per me più mirabile quella ragazza di legno nobilmente vestita, e che con molta naturalezza suona il pianoforte. Al modo che muove mani, vita, testa e occhi sembra donna viva, né le manca il respiro. E la musica non la esprime con sentimento, toccando i tasti or con dolcezza ed ora con robustezza? Ma guardate: essa, finite le sue cinque promesse sonate, ringrazia, ed accomiata i suoi uditori con una leggiera piegatura di collo in avanti, ed una smorfiosa mossa d’occhi e di bocca. Carina davvero! Addio adunque, ingegnosissimi Automi. Passiamo ora a visitare una compagnia di scimmie sonanti, che fan tenore ad altra di gatti cantanti. «I gatti cantanti?» Sì, i gatti cantanti. Qual maraviglia per allegrezza, o per rabbia o per fame cantiam tutti, e canterei anch’io, se lo richiedesse la circostanza. I gatti in discorso cantan per rabbia, perché il padrone tirando loro fortemente le code e gli orecchi, mentre stanno stretti in una lunga scatola, essi pel gran dolore e dispetto metton fuori le amare voci, che son tutte poste in accordo dall’alto al basso. Ecco la bene adorna sala accademica, ove il coro istrumentale e vocale ha convegno. Come tutti nobilmente vestiti! Il maestro di orchestra è un Orangutange, preparasi a batter la solfa, e già ammicca a’ suoi scolari, perchè si mettano in ordine e in punto. Tutti in moto, e al loro posto. Ed intanto che si fa l’accordo degl’istrumenti, vengono distribuiti i libretti della musica, che pongonsi nei respettivi leggii. L’espettazione del pubblico è grande. Zitti tutti, che si dà principio. È un orchestra veramente ben condotta all’uso nostro; ma il canto di nuovo genere, e così curioso e festivo da far smascellare ognun dalle risa, e termina in fatti lo spettacolo con una solenne risata del pubblico, accompagnata da clamoroso e ripetuto evviva. Resterebbe a vedersi un serraglio di bestie feroci, orsi che ballano, elefanti che giuocano, ed il celebre cane Fido, che compone i nomi con un alfabeto dato, fa i conti, e giuoca a tresette. Un anno feci due partite con lui, e vi assicuro che si condusse da maestro, rispondendo e prendendo quando occorreva. Il povero Fido in quell’anno doveva morire, perché ebbe una cortellata da un nemico del suo padrone, che tentò levargli con quella bestia la propria sussistenza; ma fu medicato a tempo e guarì. Or dite, che gli uomini sono ragionevoli, e le bestie no. Vi sarebbe da veder un arsenale di sorci che fanno vari mestieri, vestiti tutti in costume e altre curiosità: ma oggi basti, e riserbiamo a miglior tempo il soddisfare al nostro piacere. Potrei anco condurvi a godere dei divertimenti; ma di questi per oggi farem senza. Soltanto ve li accennerò, per darvi piena contezza della fiera. 

Di giorno sono giuochi di cavalli in circo di legno improvvisato, e corsa dei medesimi a pieno e a vuoto, corse di bighe, giuochi di funamboli e saltatori e prestigiatori. Che se vi gustassero i ciarlatani, ne trovereste per le piazze vari, i quali con voci sgangherate e gesti sperticati con nuovo, ma torbido fiume di eloquenza, vi cavan denti, vi estirpan calli, vi assestan ossi, vi asciugan piaghe, vi calman doglie, imborsando poi denari con lo spaccio dei cerotti, dei balsami, degli odontalgici liquori, delle polveri secrete, dei specifici sorprendenti ecc., e canzoncine amorose o di fatti tragici. Alcuni di questi, non spiritosi, ma spiritati Dulcamara, vestiti in nuova foggia, con monile di denti al collo e ciondoli antichi di oro logio in sui calzoni, portan cocchi e cocchieri con nobili cavalli, servitori in livrea a cappelli gallonati, il trombetta, né mancava, per ricordarci il nostro ultimo fine, il teschio della morte posato sopra la cassetta ove son chiusi i ferri del loro mestiere , le carafine e polveri da spacciare. Se vi piacesse poi di andare a passeggio al molo in sul tramonto , trovereste quivi gran concorso, e vedreste lo sfoggio e il lusso del vestiario in tutti, perché e aristocratici e borghesi, e quelli pure del volgo ben si lisciano, acconciano e rimbiondiscono. 

 

Le donne belle

Delle donne belle poi ve ne son parecchie e di ogni tipo e di varie nazioni, tutte ben messe, vispe e briose, perchè la malinconia per la fiera non si trova, essendo in questo tempo Senigallia il paese della fortuna, del passatempo, dell’allegria. Ma, due ore prima del passeggio, nelle domeniche si estraggono in piazza del duomo, e avanti il palazzo Micciarelli in un palco di legno, a bella posta costrutto, due e anco tre tombole di 400 scudi l’una, e cosi fannosi contenti anco i cabalisti per l’arte loro divinatoria. 

A proposito mi ricordo, che in una di queste tombole, sortita nel 1828, accaddero due tremende disgrazie. Perché, passando per la piazza, mentre si attendeva al giuoco, una carrozza nobile dell’appannaggio, i cavalli, per essere mal governati dal cocchiere, urtarono in un banco occupato dai giocatori. Le donne specialmente si misero a gridare e fuggire, e bastò questo, perché tutta la piazza fosse in sommossa e rivoluzione, e ognuno si desse a disperata fuga, andando l’un sopra l’altro. Per cui ne nacque un acciaccamento e pestamento di persone tremendo, uno strappare violentissimo di vesti, e altra roba da dosso, in modo che qualcuno restò mezzo nudo; e fu proprio miracolo, se non ebbevi alcun morto, ma solo feriti e contusi. Restata vuota la piazza di gente, videsi piena di oggetti smarriti, che vennero poi raccolti dai soldati posti lì a guardia. Io vidi la miseranda scena in sulle finestre del vescovato, e vidi pure quando il palco dei deputati della tombola sfasciossi, ed essi tutti a gambe per aria sotto le tavole unitamente al trombetta, al banditore e altri di loro compagnia. Ma più la paura che il male, mentre il palco non ìstava molto elevato. Lo sfasciamento del medesimo successe perché i deputati a calmare e trattenere il popolo spaventato e fuggente, si mìsero in cumolo con le persone sporgenti fuor delpalco, a gridare: « Non è nulla… fermi… fermi… ». Lo sforzo che fecero di loro persone contro le tavole mal chiodate, fu cagione che queste si staccassero ed aprissero ad un tratto, e però tutti a terra. Ma qui non fermaronsi le disgrazie di quel giorno veramente fatale. Nella sera, due ore circa dopo la tombola, surse all’ improvviso una tempesta aerea così furiosa e terribile, che sconvolse il mare, e atterrì il paese, mandando per aria barche, casotti, tendoni e tutto che le si parò dinanzi e che non potea resistere alla sua furia. Parve proprio il finimondo, e non vi dico dello spavento generale. 

Ma torniamo a cose allegre, e discorriamo dei divertimenti notturni. Primo convegno affollato al caffè tutte le sere, trattenuto da prestigiatori e abili compagnie veneziane, napolitane ed estere di sonatori e cantanti. Nelle domeniche fuochi artifiziali di nuova invenzione, rallegrati dai concerti musicali cittadini e forastieri. Talvolta feste di ballo splendidissime, e sempre teatro in musica con opere classiche del giorno, orchestra e cantori di maggior grido. Mi ricordo ancora della famosa prima donna francese la Malibrand, la quale alla bellissima voce e al bellissimo aspetto univa una grazia di modi particolare, per cui era vagheggiata, corteggiata, e, dirò pure, adorata qual altra divinità da buon numero di giovani con la barba senza, e anche da qualche denaroso vecchiarello «cui pizzicava amor potentemente» Madamigella univa alla bellezza un carattere assai volubile e bizzarro, ed una certa civetteria, ossia arte fina di saper prendere i merlotti nella rete. Vi conterò di lei una storiella che ancora mi sta ben fisa nella memoria, e che non sarà fuor di proposito per la nostra fiera. Aveva essa fatta a caso conoscenza e stretta relazione con un ricco mercante di ombrelli, ventagli e bastoni di ogni qualità; fra questi ultimi erano alcuni molto eleganti e graziosi, ma di tal finezza, che parean frustini, per cui non aveano còlto il gusto dei paini e bell’imbusti sia paesani che di altro luogo. Il negoziante, discorrendo con lei dell’esito della propria merce, si lamentò della infelice riuscita di quei ben foggiati arnesi. Ma la bella virtuosa dissegli: «Confortatevi, ché io avrò modo a farverli vender tutti e prontamente: datemene uno ». E avutolo esce con quello dal negozio, e per le vie agitandolo all’aria in mille guise, e passandolo scherzosamente e di fuga da un dito all’ altro, e ora con grazia e caricatura facendoci la marcia del soldato, e ora ponendolo in arco dietro la vita o avanti, per forse simboleggiare quello di Amore, si attirò intorno una quantità di giovanotti, come passeri e fringuelli intorno alla civetta. Ed essi ammirando la piacevole sua letizia e amabilità, e i giuochi del bastoncino, le dimandaron premurosi, in qual negozio lo avesse acquistato. E saputolo, via là per provvedersene. L’ esempio di questi primi trasse gli altri a far lo stesso, in guisa che il negoziante, contro ogni sua espettazione, spacciò la disprezzata merce in un momento, e le vie furon viste piene di siffatti bastoni, che si dissero poi bastoni alla Malibrand. 

 

Maria Felicia Garcia Malibran, grande cantante del primo Ottocento
Maria Felicia Garcia Malibran, grande cantante del primo Ottocento

 Un cappellaio, saputo il fàtto, si raccomandò a lei per la vendita de’ suoi cappelli invenduti. Ed essa lo compiacque subito. Se ne mise uno in testa, e via al passeggio. La novità del cappello da uomo in testa di una donna, come la Malibrand spinse tutti i giovani suoi amici a fornirsene; di modo che il cappellaio spacciò la sua merce, e così venne pur la moda dei cappelli alla Malibrand. Tanto prestigio hanno nel cuor nostro le belle e virtuose cantanti, come le belle e brave ballerine. E rispetto a queste ultime potrei pur contarvi cose curiose, specialmente sulla celebre Esler, che ballò costà, e sulla celebre Cerrito (detta per antonomasia “la figlia dell’aria”) che vidi ballare all’Apollo di Roma. Costoro destaron tanto entusiasmo e furore, che furon donate di preziosi regali, coronate di auree corone, onorate in altri mille modi. E in quanto alla Cerrito vi dirò, che alcuni matti, anzi mattissimi, allorché ella partì dalla capitale, presero quasi di assalto la camera, dov’ebbe dormito, e pagaron scudi dieci per coricarsi nel suo letto, e ivi balordamente bearsi per un quarto d’ ora; e pagaron scudi venti per comprare una ciabatta da lei dimenticata, e il vaso da notte a lei servito. Quella per metterla sotto campana di cristallo ad perpetuam rei memoriam e questo per ridurlo a minutissimi pezzi, e farli incastonare in spillette d’ oro al paro dei brillanti: brillanti veramente degni del loro amoroso nobile petto, e del loro alto merito. Lo crederete? Credetelo pure, che ciò successe per altre, si vuole pure per la Malibrand. 

 

Ma sarei troppo lungo se volessi tutte minutamente contarvi le particolarità, le novità, le rarità, le bizzarrie, i divertimenti, le debolezze umane etc. che vidi, gustai, ammirai, compatii nelli solenni giorni della fiera senigalliese. Vi basti solo il cenno dato, per formarvene un’ idea. 

 

 

[Giovanni Eroli (Narni, 17 novembre 1813Narni, 9 gennaio 1904) è stato uno scrittore, letterato ed erudito italiano].

4 thoughts on “In tempo di fiera

  1. Studiò nel seminario-convitto di Senigallia, dove rimase per diversi anni, godendovi della paterna e affettuosa protezione del vescovo di quella città, cardinale Sceberras-Testaferrata. Ivi gli fu condiscepolo Gioacchino Pecci, il futuro papa Leone XIII

  2. Non so di chi sia stata la splendida idea di pubblicare questa vivacissima lettera del marchese Giovanni Eroli sulla fiera di Senigallia… suppongo sia opera di Leo Badioli, infaticabile ricercatore storico.
    Vi è di tutto: lo spintonarsi e l’accalcarsi della gente, lo sbigottimento del giovane seminarista di fronte alle conturbanti forme anatomiche in cera del corpo femminile con il feto in grembo, il crollo del palco della tombola e l’arrivo improvviso del fortunale che manda tutto all’aria e, soprattutto, la civetteria di certe ballerine e di certe artiste che fanno fare affari d’oro a chi si è mostrato cortese con loro. Di certo, il coro dei gatti che cantano tirati per la coda e pizzicati alle orecchie susciterebbe lo sdegno dei moderni animalisti, che non mancano oggi di mettere l’accento sui modi come sono trattati gli animali in vendita alla fiera!
    Complimenti alla Redazione che ha scelto di pubblicare questa eccezionale descrizione proprio in coincidenza con la fiera di Senigallia in corso.

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