Il sergente Toschi viene spedito nelle Marche
per combattere il brigante più famoso dell’Appennino
Maximiliano Cimatti
L’uomo di Elcito
ed. Meridiano Zero, novembre 2017
Ho appena letto un libro piuttosto bello; anzi, molto bello. Titolo: L’uomo di Elcito; autore: Maximiliano Cimatti. La lieve titubanza nell’annunciarlo sta solo nel fatto che mi sento influenzabile: conoscevo già Elcito, uno sputo di paese remoto e inverosimile oltre la faggeta di Canfaito, e il monte che lo sovrasta, il San Vicino, elemento totemico nel mezzo di un ampio paesaggio. Difficile non amare questi luoghi, soprattutto per chi li porta impressi come paesaggio domestico.
Non conoscevo invece Maximiliano: ravennate di Bagnacavallo autotrapiantato sull’alta collina sopra l’Esino in cerca della tranquillità necessaria per vivere e per scrivere.
Autore e libro vengono presentati e si presentano al pubblico in questo fine anno: a Senigallia il 3 dicembre scorso presso la libreria Io-book; ma si sa che le presentazioni sono fatte per una prima conoscenza, e che chi ascolta vede il libro in quel momento per la prima volta. Insomma, si va in fiducia. Sarebbe bello che si potesse fare un secondo incontro in modo da scambiare le rispettive impressioini di lettura.
L’uomo di Elcito è il primo romanzo di Maximiliano. Racconta le peregrinazioni di Anselmo Toschi, militare di leva, romagnolo anche lui e alterego suo, militare di leva nell’esercito italiano che fino a poco tempo prima era stato piemontese. A lui, spedito nelle Marche, viene affidato il compito di combattere il brigantaggio, e in particolare di snidare il più famoso e misterioso dei briganti postunitari nel nostro Appennino: Olmo Carbonari, l’uomo di Elcito, appunto. L’anno, il 1866, è segnato da varie vicende disastrose, come la sconfitta di Lissa nella Terza Guerra di Indipendenza e la grande epidemia di colera, oppure forzate nel loro farsi da violenze, come la costruzione della linea ferroviaria Ancona-Roma.
Il sergente Toschi alla testa di un drappello di sette-otto marmittoni setaccia il territorio per un ampio tratto, tra Fossombrone e Matelica, attorno all’asse della ferrovia, e ottiene risultati incoraggianti, ma non quello di scovare il Carbonari; finché l’autorità militare decide di sollevarlo dall’incarico e, dopo averlo elogiato per il buon lavoro svolto, assegnare il compito a qualcun altro.
All’atto del congedo, tuttavia, Anselmo Toschi non si dà per vinto: l’esperienza della caccia, intorbidata dal cinismo dell’impresa ferroviaria e dall’estraneità di un esercito regio sentito dalla popolazione più come forza d’occupazione che non come tutela nazionale, si è andata trasformando per lui in un’ossessione che lo spinge a proseguire la ricerca.
“Una solitaria caccia all’uomo – è scritto nella quarta di copertina – diventa la ricerca del senso di una vita, del destino, dei sogni”.
Le due fasi del racconto, nell’esercito e dopo, sono tracciate con valorosa qualità narrativa; e, proprio grazie alla sua progressione, il lettore si accoda volentieri a Toschi, lo segue ed è tentato perfino di guidarlo nelle sue indecisioni.
Ed è pur vero – come ha suggerito l’editor Luca Pantanetti alla presentazione – che la ricerca dell’uomo nell’ignoto fa pensare a Conrad: il viaggio di Toschi attraverso un mondo militare e affaristico che si compiace di metodi assai sbrigativi per mettere sotto la marmaglia umana è un po’ simile alla risalita del fiume Congo in Cuore di tenebra o a quella del Mekong nella riscrittura filmica in Apocalypse now; non lo è più quando, arrivati insieme a lui al nucleo del male, troviamo che Olmo Carbonari non è affatto un Kurz che sogna di sterminare tutti i nativi ma, al contrario, un uomo dotato di grande equilibrio e sensibilità sociale, votato alla difesa della vita e dei modi di vita di una piccola comunità.
In questo luogo difeso perché irraggiungibile – scrive Cimatti-Toschi a trequarti del racconto – gli uomini e le donne di Elcito “si occupavano della propria sorte come se fosse una casa da costruire un pezzo per volta”; ognuno lavorava a vantaggio di tutti, con pazienza e coraggio; la parola era parola, l’amore soccorrevole e accolto come un dono di natura. Se dunque salire la montagna poteva aveva il senso di un ritorno alla radice primigenia di ogni cosa crudele e mostruosa, l’esserci arrivati mostra un mondo raccolto e rovesciato in cui l’opposizione Bene/Male assume un valore relativo a chi lo compie e un’apparenza instabile a seconda della sponda dalla quale è visto. Non però per sempre: in sospensione temporanea, si potrebbe dire.
Perché in realtà gli abitanti briganteschi del paese “avrebbero dovuto sapere che nulla in quel posto aveva futuro. Le case di Elcito sembravano pronte a crollare nel vuoto alla prima tempesta di vento, esattamente come i loro abitanti. Nessuno l’avrebbe mai ammesso, ma sul paese incombeva la stessa taglia che pendeva sulla testa di molti di loro e prima o poi la Nazione sarebbe venuta a riscuoterla”.
Si tratta di una piega della storia. Quante volte abbiamo letto e visto (come per gli anabattisti dell’Opera al Nero o per gli indios di Mission) le aspirazioni umane confinate e distrutte da poteri più ampi? L’onda del divenire salirà fin lassù, spariglierà ogni cosa e finalmente il Bene trionferà sul Male. O il Male sul Bene.
Siede forse qui lo snodo che rende metastorico questo romanzo, tra relitto e utopia. Visto da dentro, il paese che ha tanto attratto Toschi non sembra a noi affatto il lato oscuro dell’umanità, ma il germe di un futuro che poteva essere e non sarà mai stato. L’Elcito che cerchiamo, in fin dei conti, all’ombra di chi possiede il mondo: quel paese sobrio e sincero, pastorale e connesso nel quale vorremmo riparare dai guasti contemporanei, sperando di ritrovarci quel poco di natura che rimane col pensiero troppo estetico che solo ai disperati sia lecito sperare, come da Benjamin in Angelus novus. Ma non lo troveremo, semplicemente perché non esistono più luoghi irraggiungibili. Lo sguardo panottico su ogni nostro moto o pensiero può cambiare l’aria, inviare una malattia, sommuovere un terremoto. Abbiamo tutti una taglia sulla testa.
Non esistono più luoghi, in realtà. Si direbbe, anzi, che la stessa utopia sia pervenuta al capolinea del futuro anteriore. Marcuse ne intravide la fine nell’aprile del ’68. Avesse avuto ragione, che facciamo adesso? Avanziamo come Manto con la testa stravolta perché sporgersi in direzione del post-umano mette solo paura. Così quelli di noi che prendono sul serio i propri sogni cercheranno di dimenticarsi che ogni resistenza può essere cancellata in un solo momento.
A questo punto, diventa molto importante che ci riescano.
Leonardo Badioli con Catia Fronzi