Basta apparire. Non è solo un sottotitolo, è una realtà di fatto. Un luogo comune talmente diffuso da esser divenuto realtà incontestabile. Una self-demonstrating prophecy, per citare Umberto Eco. Vista la capillare opera di occultamento di ogni notizia a proposito dell’uscita della pellicola, ivi incluso il rifiuto a reti unificate di trasmettere il trailer da parte di Raiset, pochi e sfortunati eletti hanno avuto il (dis)piacere di vedere Videocracy, una produzione italo-svedese diretta da Erik Gandini.
Non si esce indenni da una proiezione simile, indipendentemente dalla fede politica praticata. Alcuni ne eemergono storditi, increduli ed incapaci di commentare. Altri possono interpretarlo come l’esaltazione del modello di self made man, lo stadio finale di una dottrina propugnata in modo martellante negli ultimi trent’anni: farsi da sé ormai non significa più partire dal nulla e creare qualcosa di concreto, produttivo, in grado di generare ricchezza per sé e per gli altri. Lì eravamo ancora nella fase in cui per essere bisognava essere, apparire era soltanto una conseguenza. Videocracy ci racconta il seguito.
Il documentario comincia con la riproduzione di alcuni spezzoni tratti dalle prime trasmissioni delle tv commerciali, alla fine degli anni ’70. Le riprese narrano di primordiali interazioni col pubblico da casa: si telefona per rispondere ad un quiz, se il telespettatore è maschio il premio per la risposta giusta è lo spogliarello di una casalinga il cui volto rimane coperto. Se è donna, accade lo stesso con uno spogliarellista uomo. Il tutto condito da applausi e sguardi soddisfatti di buoni padri di famiglia. Com’era prevedibile, il successo fu massiccio ed immediato. Mediaset nacque da queste profonde radici.
La scena si sposta poi nel cortile di una villetta a schiera. Ricky si allena nel karate. Ha un fisico molto prestante, ma il volto non è decisamente da grande attore. Lui, però, afferma, con marcato accento bresciano, che farebbe di tutto per diventare famoso. “Perché se esci con una ragazza e le dici ‘nella vita faccio il tornitore’, quella dice ‘ah’ e poi ti molla. Se dici invece ‘sono in televisione’ è tutto diverso. La fama, il successo, i soldi, sono tutto”. Non per sentito dire, è proprio convinto.
La pellicola prosegue con una carrellata sul mondo del casting, dei provini, delle veline, in un frullio di corpi femminili, luci e paillettes da far girare lo stomaco. Il culmine lo si raggiunge nei trenta minuti centrali del documentario, dedicati interamente alle gesta ero(t)iche dei due padrini del jet set italiano: Lele Mora ed il suo figliol prodigo Fabrizio Corona. Ciò che sconcerta è la nonchalance con la quale costoro narrano le loro imprese, senza il benché minimo tremito morale od etico. Per far soldi, tutto è lecito. Per apparire, tutto è consentito. Lo scenario è quello della costa Smeraldadove i nuovi idoli oziano lungo i bordi di piscine paragonabili per estensione a quelle dell’Aquafan, di giorno, mentre di notte consumano le loro fatiche sotto gli stroboscopi delle discoteche più esclusive d’Italia. Loro possono, loro ce l’hanno fatta.
Ricky è ancora lì che prova. È un fan di Ricky Martin, è convinto di saper cantare come lui, quindi vorrebbe creare un personaggio che unisca alle doti atletiche quelle di ballerino. Il risultato, esibito nel corso di un provino, è al limite del ridicolo, ma Ricky non sembra preoccuparsene. Del resto le casalinghe spogliarelliste che hanno partecipato al medesimo casting hanno sferrato colpi molto più devastanti alla propria dignità. È il prezzo da pagare per raggiungere sempre lo stesso scopo: un minuto di gloria in televisione. Non che le apiranti veline se la cavino meglio: la maggior parte di loro ha la sinuosità di un pilone dell’autostrada, ma tant’è, finché c’è il fisico si può sperare in tutto.
Secondo Ricky, il problema vero è che nella TV italiana non esistono pari opportunità: per le ragazze è molto più facile diventare famose perchè “loro possono scendere a compromessi, possono concedere il loro corpo in cambio di un posto sicuro, mentre un maschio non può mica. I ragazzi non possono mica andare a letto con questo o con quello. Per quanto, se mi garantissero un posto fisso, magari una sola volta…”
Fermiamoci qui. Chi ha immaginato che questo fosse un documentario contro il Presidente del Consiglio rimarrà deluso. Certo, il faccione di Silvio compare spesso, ma più che altro come una divinità compiacente, felice del mondo che ha creato e che continua ad alimentare costantemente. Nell’unico intervento in presa diretta riprodotto nel film, il presidente afferma “Sfido chiunque in Italia ad affermare di aver raggiunto gli stessi risultati che ho conquistato io”. Ed ha ragione. Silvio non è solo “arrivato”, come un Agnelli o un Montezemolo qualunque. Silvio ha modificato il paese a sua immagine e somiglianza, creando una mandria di videodipendenti, indottrinabili e manovrabili in ogni direzione ed in ogni momento. Camerieri, parrucchiere, operai, fotografi, manager: servi devoti, dalla fede incrollabile nel mito della fama incarnato dal Presidente.
Videocracy parla di noi, di come viviamo il nostro rapporto con i media, l’informazione e, soprattutto, con la realtà. È un film che dovrebbe essere proiettato in tutti i meeting e congressi di partito, a cominciare da quelli organizzati dalle forze di opposizione, in tutte le università, in tutti i convegni di cervelloni che si chiedono se l’Italia abbia o meno un futuro. Il paese reale, ora, è questo e con questo bisogna fare i conti in occasione delle elezioni. Non è più tempo di proclamare ideologie che non hanno alcuna presa sulla vita reale, per poi stupirsi dei risultati delle consultazioni. Non c’è nulla di imprevedibile nei trionfi di PDL ed affini. Nulla.
Strane coincidenze del calendario. La simbolicità di una data come quella dell’8 settembre appare ormai tutt’altro che scontata, dato che l’ignoranza sembra essere requisito irrununciabile per un buon curriculum televisivo. Eppure viene spontaneo domandarsi se valeva la pena spargere così tanto sangue in una lotta fratricida per un’Italia migliore.
(scritto da Elena Starna nel 2010)